I duri di Riad in tunica bianca: un attacco al petrolio di scisto americano?

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Il titolo con il quale il quotato Financial Times apriva la propria edizione dello scorso giovedì non poteva certo lasciare indifferenti. Il quotidiano finanziario strombazzava infatti a caratteri cubitali la sorprendente decisione della compagnia petrolifera Shell di tagliare il maxi-contratto dall’esorbitante valore di 6,5 miliardi di dollari stilato con la Qatar Petroleum. La ragione non è difficile da scoprire. La drastica riduzione del prezzo dell’oro nero, scivolato dagli oltre 100 dollari al barile dello scorso autunno ai circa 50 delle ultime settimane, sta infatti provocando un vero e proprio terremoto nel comparto energetico, consigliando a molti operatori di rivedere, almeno temporaneamente, gli investimenti previsti. Considerando poi che la decisione presa dal colosso anglo-olandese si somma alla scelte della norvegese Statoil di non usufruire delle tre licenze ricevute per condurre trivellazioni sulla costa occidentale della Groenlandia e della britannica Premier Oil di posporre un progetto di oltre 2 miliardi di dollari nelle Falkland, il quadro assume certamente tinte fosche.

Molto è stato scritto sulle ragioni che hanno determinato una simile caduta del prezzo del greggio. L’elemento più importante da evidenziare è certamente una forte alterazione del rapporto tra domanda ed offerta. L’entrata in pieno servizio dei numerosi pozzi aperti all’inizio degli anni duemila, sommandosi all’imprevedibile autonomia energetica (solamente temporanea, secondo qualcuno) che gli Stati Uniti hanno raggiunto grazie ai nuovi e pericolosissimi metodi di estrazione (nostro articolo, qui) ha determinato, al tempo stesso, uno straordinario aumento sul lato dell’offerta ed un indebolimento della domanda. Quest’ultima risente infatti non solamente del venir meno dello storico acquirente a stelle e strisce, ma anche della prolungata fase di debolezza causata dalla perdurante crisi economica che flagella le cosiddette economie mature, e non solo loro, dall’ormai lontano 2008.

Nelle settimane che hanno preceduto l’incontro dei principali paesi esportatori di petrolio molti analisti attendevano un cospicuo taglio nell’estrazione giornaliera di greggio, con la precisa finalità di aiutare la risalita di un prezzo (eravamo attorno agli 80 dollari in quella fase) considerato eccessivamente basso sia per i profitti da realizzare sia per la tenuta sociale e politica di numerosi paesi. In realtà, il 27 novembre scorso l’OPEC ha deciso, nel segreto delle sue stanze, di lasciare invariata la quantità di petrolio estratto. L’assenza di unanimità, come recita il regolamento dell’organizzazione, determina infatti il perpetrarsi della disposizioni assunte in precedenza. Al riguardo, la posizione di intransigenza assunta dai sauditi, ha certamente avuto un peso determinante, a fronte di altri paesi probabilmente desiderosi invece di favorire la risalita del prezzo del petrolio sui mercati internazionali. Cosa abbia spinto Riad su questa strada rimane materia dibattuta. Secondo molti, i sauditi starebbero aiutando gli storici alleati americani, desiderosi di mettere alle corde numerosi nemici di lunga data. Tra questi figurano certamente tre paesi che fanno ampio affidamento per la loro tenuta interna sull’esportazione di petrolio e gas: la Russia di Vladimir Putin, l’Iran post-Khomeinista, ed il traballante Venezuela del presidente Maduro.

A nostro giudizio però questa spiegazione è incorretta perché sopravvaluta la forza delle relazioni tra Washington e Riad, non prendendo inoltre in considerazione molti elementi di rilievo. Per prima cosa, i sauditi godono di uno straordinario vantaggio competitivo. L’estrazione del greggio nel deserto è infatti estremamente conveniente (5-6 dollari al barile), soprattutto quando confrontata con quella del Mare del Nord (oltre 25 dollari), oppure quella ottenuta da scisti (attorno all’esorbitante cifra di 70 dollari al barile). Secondariamente, i sauditi sembrano interessati non solamente al prezzo di vendita, ma anche e soprattutto alla difesa delle quote di mercato. La decisione di non tagliare la produzione si basa sulla presunzione che in un mercato sempre più affollato di produttori e nel quale l’OPEC gioca un ruolo meno decisivo rispetto al recente passato, il taglio della produzione poteva rivelarsi in un vero e proprio boomerang per i paesi facenti parte dell’organizzazione: ovvero, perdita di quote di mercato a fronte di una non inversione nel caduta verticale del prezzo del petrolio. Il terzo ed ultimo tassello del mosaico è il più complicato, ma anche il più interessante. Come giustamente faceva notare alcune settime fa Manlio Dinucci in un interessante articolo uscito sul quotidiano il Manifesto è lecito domandarsi come mai il boom dell’estrazione con metodi non convenzionali prosegua negli Stati Uniti ed in Canada. La ragione è che l’amministrazione Obama ha destinato miliardi di dollari a questo settore, rendendo così remunerativo per le imprese operanti estrare anche con margini di profitto minimi, oppure in evidente perdita. La ragione di questa attenzione è da attribuire a quel vasto tentativo di re-industrializzazione che gli Stati Uniti perseguono con la finalità di combattere lo strapotere cinese nel comparto manifatturiero. La strategia di Washington si basa su tre presupposti: a) basso costo del lavoro; b) risibile tassazione delle imprese; e c) minimo costo dell’energia (per approfondire, qui). Questo ultimo aspetto è strettamente legato all’estrazione non convenzionale di petrolio. La logica domanda che sorge è ovviamente capire fino a dove Washington sarà disposto a spingersi. Il persistere di un prezzo del barile sotto la soglia dei 50 dollari avvicina ovviamente il punto di rottura. Cosa che a Riad non sfugge certamente. Come ci ha ricordato il ministro saudita del petrolio riferendosi agli americani: “si feriranno prima che noi possiamo sentire alcun dolore” (per ulteriori stralci dell’intervista, qui). La verità è che non esiste alcun asse Washington-Riad che si contrappone a Mosca-Teheran-Caracas. Oggi vi è semplicemente un’eccedenza di produzione calcolata in 1,5-2 milioni di barili. I sauditi pensano che il ribilanciamento tra offerta e domanda si possa raggiungere mettendo fuorigioco chi estrae a prezzi più alti, accettando meno profitti oggi e scommettendo su un rimbalzo domani. E visto che loro estraggono ad uno dei prezzi più convenienti al mondo e dispongono di risorse stimate nel valore di circa 400 miliardi di dollari, hanno grandi possibilità di riuscire nel loro tentativo.

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