Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo – parte 6

Continua da Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo – parte 5

33. Sovrapproduzione e nascita dell’Opec

Alla fine degli anni Cinquanta la sovrapproduzione petrolifera apparve come un fatto strutturale. In tutto il mondo si praticavano riduzioni nei prezzi mentre la Russia inondava i mercati a buon mercato. Coi russi in Italia Mattei aveva appena concluso un accordo per l’acquisto di greggio a sessanta centesimi meno del prezzo praticato in Medio Oriente; in Giappone il petrolio veniva svenduto. Peggio ancora, il petrolio russo stava invadendo l’India, come era accaduto nella guerra dei prezzi scatenata da Deterding negli anni Venti: quando il governo indiano annunciò alle raffinerie di tre delle Sette Sorelle che gli era stato offerto greggio russo più a buon mercato queste furono obbligate ad abbassare i prezzi. Alla situazione di sovrapproduzione mondiale di greggio concorse la scoperta di nuovi grandi giacimenti in Libia, la cui produzione passò da 180 mila b/g del 1962 a 3,3 milioni del 1970, facendo del paese il terzo produttore Opec. Per tutti gli anni Sessanta i prezzi di listino rimasero pressoché fermi, mentre i prezzi effettivi ai quali il greggio veniva venduto alle industrie di raffinazione tendeva ad abbassarsi. La Exxon e le altre Sorelle si trovarono in mezzo al guado: da una parte erano costrette a praticare sul mercato prezzi competitivi, dall’altra essendo legate al posted price, che costituiva la base di calcolo per le tasse, finivano per pagare ai paesi produttori più del fifty-fifty concordato. Grazie ai bassi prezzi, nel ventennio 1950-1970 la domanda globale quintuplicò e il petrolio diventò la prima fonte energetica consumata a livello mondiale. Nel 1959 Eisenhower decise di imporre un programma di limitazione alle importazioni di petrolio mediorientale, cedendo alle pressioni delle piccole e medie Compagnie statunitensi che dipendevano dalla più costosa produzione nazionale e che rischiavano di essere messe fuori mercato. Esse fecero balenare il pericolo che una ridotta autonomia produttiva avrebbe esposto gli Usa al ricatto di paesi lontani e instabili. A questo punto le grandi Compagnie, vistosi chiudere il più grande mercato di consumo in un mondo in cui c’era già un eccesso di offerta, risposero con l’abbassamento di 18 centesimi del prezzo del barile per poter pagare meno tasse ai paesi produttori. Ciò significava però tagliare le rendite a Stati che dipendevano mediamente per l’80% dagli introiti petroliferi. Ciò che non poté la politica, poté il petrolio: tra i produttori la riduzione dei prezzi generò un sussulto di solidarietà fra regni feudali, paesi antimonarchici e Stati estranei al mondo arabo. Nel 1960 i rappresentanti di Arabia Saudita, Iraq, Iran, Venezuela e Kuwait si incontrarono a Baghdad in un’atmosfera di rinnovata fiducia dando vita all’Opec (Organizzazione dei paesi produttori ed esportatori di petrolio), ossia ad un nuovo cartello per contrastare quello delle Sette Sorelle. La decisione unilaterale della potente Exxon (che era socia contemporaneamente dell’Aramco, del Consorzio iraniano ed anche dell’Iraq Petroleum) aveva spinto i paesi del petrolio a rispondere allo stesso modo: probabilmente l’Opec non sarebbe mai nata senza il cartello delle Sette Sorelle. La prima risoluzione votata individuava il principale nemico nelle Compagnie e stabiliva che i membri non potevano restare indifferenti alla politica dei prezzi adottata dalle società petrolifere e che tutti dovevano attivarsi per riportare i prezzi ai livelli precedenti.

L’Opec raggiunse subito l’obiettivo di prevenire altre riduzioni dei prezzi ufficiali, ma non riuscirà mai a ripristinare i prezzi originari; non solo, i suoi membri non possedevano gli strumenti per fissare i prezzi o per diminuire la produzione, che erano nelle mani di chi controllava il mercato. Di fatto, la ritrovata unità dei paesi produttori annegò ben presto nell’abbondanza di petrolio russo e del nuovo petrolio nigeriano e libico che impedirono ogni sostegno artificioso dei prezzi, mentre le Compagnie continuavano a trattare separatamente con ciascun governo per tentare di metterli l’uno contro l’altro. Paradossalmente, a fronte delle Compagnie che cercavano di frenare la produzione per impedire il crollo dei prezzi, ciascun paese Opec aspirava ad aumentare la propria produzione per assicurarsi maggiori introiti. Lo Scià era il più intollerante ad ogni restrizione, impegnato nel suo ambizioso quarto piano quinquennale e nelle crescenti spese militari. Era convinto che l’accordo del Consorzio iraniano era più restrittivo di quello dell’Aramco e minacciò le Compagnie di ritiro delle concessioni. In effetti, le clausole segrete intervenute tra le Sette Sorelle prevedevano per l’Iran, in caso di eccedenza produttiva, penalità maggiori di quelle per l’Arabia Saudita. Per altro, il meccanismo per cui ogni società non poteva ritirare proporzionalmente più della propria quota senza pagare una penale, rendeva insoddisfatte anche società come la Mobil o la Cfp che avevano una compartecipazione più bassa rispetto ad Exxon, Socal o Texaco. Alla lunga questi accordi restrittivi si ritorceranno contro i paesi produttori, la crescita economica dei quali doveva essere oggetto di trattativa nei corridoi delle Compagnie private.

34. La guerra dei Sei Giorni

In quello stesso tempo la crescente tensione tra lo Stato di Israele e gli Stati arabi minacciava di far da detonatore allo scoppio di tutta l’area. La seconda guerra arabo-israeliana del 1956 aveva mantenuto le linee di confine stabilite alla fine della prima guerra del 1948. La sorveglianza delle frontiere era stata affidata alle truppe Onu. Nessuna soluzione era mai stata apportata al problema dei profughi che avevano abbandonato la Palestina ebraica nel 1948 e vivevano da allora soprattutto in Giordania e in Egitto in campi di raccolta in condizioni di vita miserabili. Il canale di Suez restava chiuso ad Israele che però poteva comunicare con il Mar Rosso attraverso il porto di Eliat situato in fondo al golfo di Aqaba: l’ingresso del golfo era controllato dall’Egitto, ma i caschi blu dell’Onu assicuravano il passaggio delle navi israeliane. Una iniziativa di Nasser, probabilmente su pressione della Russia, pose fine a questa situazione, mettendo in pericolo l’economia di Israele: il 18 maggio 1967, su richiesta di Nasser, il segretario dell’Onu U-Thant ritirò i caschi blu, permettendogli di sbarrare l’accesso nel golfo di Aqaba non solo alle navi israeliane ma anche a quelle che trasportavano prodotti strategici per Israele, compreso il petrolio. Il 5 giugno 1967 Israele invase l’Egitto dando inizio alla guerra detta dei Sei Giorni. Il suo esercito (Tsahal) attaccò il grosso dell’esercito egiziano concentrato a nord del Sinai, mentre l’aviazione distruggeva a terra gran parte dell’aviazione egiziana di fabbricazione sovietica. La sorpresa fu totale: il 6 giugno lo stato maggiore israeliano annunciò la conquista di Gaza; il 7 di Sharm el Sheik, che controllava l’ingresso del golfo di Aqaba all’estremità meridionale del Sinai. Inoltre gli israeliani occuparono la penisola desertica del Sinai, ciò che permise loro di impadronirsi di tutta la riva orientale del canale di Suez, molto oltre le linee del 1956. L’esercito israeliano occupò la città vecchia di Gerusalemme, che apparteneva alla Giordania, e proseguì l’offensiva occupando tutta la riva occidentale del Giordano. Infine le forze israeliane si impadronirono di importanti posizioni strategiche siriane dalle quali venivano frequentemente bombardati i kibbutz israeliani. In sei giorni quella che avrebbe dovuto essere la riscossa degli Stati arabi si era trasformata nella loro totale disfatta: la Siria aveva perso le alture del Golan, oltre a gran parte della sua aviazione; la Giordania aveva dovuto rinunciare a tutta la Cisgiordania, alla sua aviazione e a gran parte del suo equipaggiamento militare. Chi aveva subito però il colpo letale era stato l’Egitto: il suo esercito aveva subito quasi 15 mila caduti, enormi perdite di armi e munizioni, la sua aviazione era stata quasi totalmente distrutta e soprattutto Israele gli aveva strappato l’intero Sinai. Nasser, travolto dalla disfatta, rassegnò le dimissioni la sera del 9 giugno. Da tempo i paesi arabi minacciavano di usare l’arma del petrolio contro l’Occidente e l’occasione fu loro fornita proprio dalla guerra. Il 6 giugno, il giorno successivo all’attacco israeliano, l’Opec decise di attuare l’embargo petrolifero verso i paesi che appoggiavano Israele, andando ad aggravare la crisi provocata dalla chiusura del canale di Suez e degli oleodotti. Il blocco colpì soprattutto l’Europa che dal Medio Oriente e dal Nord Africa dipendeva per i tre quarti delle sue importazioni. Verso la fine di giugno anche la Nigeria, alle prese all’epoca con la rivolta del Biafra, cessò le sue esportazioni, sottraendo ad un mercato già in condizioni critiche altri 500 mila barili al giorno. Ma il boicottaggio si dimostrò un fuoco di paglia, dato che l’Iran e la Libia continuarono tranquillamente a vendere il loro petrolio non solo ai paesi occidentali ma anche ad Israele, mentre il Venezuela aumentò addirittura la produzione. Re Feisal, che si trovava di fronte ad una imminente crisi finanziaria, su consiglio del ministro del petrolio Yamani limitò l’embargo a Stati Uniti e Inghilterra, considerati paesi aggressori (peraltro nessuna delle due potenze ritirava allora molto petrolio dall’Arabia Saudita). Di fatto, per l’assenza di un fronte comune dei paesi arabi produttori, l’embargo non ottenne gli effetti voluti. Già dopo un mese, i paesi che lo avevano decretato cominciarono a dare segni di irrequietezza per la diminuzione delle entrate, Arabia Saudita ed Egitto in testa. Ai primi di settembre l’embargo venne annullato, a scorno completo del mondo arabo, che all’umiliazione militare aggiungeva l’impotenza politica.

35. La spallata di Gheddafi

Ma la situazione era destinata a cambiare all’inizio degli anni Settanta quando gli avvenimenti libici fornirono l’occasione per dare slancio all’ascesa dell’Opec (che ora comprendeva dodici paesi membri: ai cinque originari si erano aggiunti Qatar, Libia, Indonesia, Emirati Arabi, Algeria, Nigeria, Gabon) e dettare alle Compagnie nuove condizioni contrattuali. Nel 1955 un petrolio di alta qualità – il cosiddetto light – era zampillato in Libia. Per la verità, già negli anni Venti il geologo francese Conrad Kilian aveva scoperto il petrolio nella regione del Fezzan, nel sud della Libia, nella totale indifferenza da parte della Francia, ma non dei servizi segreti britannici e del generale gollista Leclerc. Quest’ultimo nel 1942, abbandonando la Libia, aveva lasciato una guarnigione a difesa dei giacimenti cartografati da Kilian, nella prospettiva di annettere il Fezzan al Sahara francese. Nel novembre del 1947, mentre Leclerc stava ispezionando i confini libici, l’aereo sul quale viaggiava precipitò (come accadrà a Mattei) in circostanze rimaste misteriose. Nel 1951, le mire francesi vennero definitivamente frustrate dalla decisione dell’Onu, su pressione degli inglesi, di decretare l’indipendenza della Libia mettendo sul trono Idris al Senussi, il cui primo provvedimento fu la concessione agli Usa di una base militare e il rilascio alle Compagnie anglo-americane dei permessi per effettuare ricerche petrolifere sul territorio libico. Sei delle Sette Sorelle e altre otto Compagnie indipendenti si accaparrarono le concessioni, e finalmente nel 1955 il nuovo petrolio libico iniziò a veleggiare verso gli USA sulle petroliere Exxon. Graziosamente, le Compagnie americane lasciarono alcune briciole all’italiana Eni e alla francese Cfp. Finché restò al potere il corrotto regime di re Idris le Compagnie petrolifere non furono seriamente minacciate. Il re si lamentava del basso prezzo del petrolio, ma a tenerlo buono bastava l’esempio di Mossadeq. Tutto cambiò nel momento in cui, il 1° settembre 1969, Idris venne deposto da un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito guidati dal colonnello Muhammar Gheddafi. Il gruppo, deciso ad usare il petrolio come arma contro Israele e l’Occidente, entrerà inevitabilmente in rotta di collisione con l’imperialismo americano e le Sette Sorelle. Il primo provvedimento messo in atto dai giovani colonnelli fu di ordinare agli americani di evacuare la loro più grande base militare del Nord Africa e di lasciare il paese. All’inizio, il nuovo governo più che verso la nazionalizzazione delle Compagnie si orientò verso un aumento del prezzo del barile: il 20 gennaio 1970 Gheddafi diede il via ai negoziati con ciascuna delle ventuno società operanti in Libia, annunciando che se non avessero accettato di aumentare i prezzi di 40 centesimi di dollaro al barile avrebbe agito unilateralmente. Affermò con boria che «il popolo libico aveva vissuto senza petrolio per cinquemila anni e poteva continuare a farne a meno ancora per qualche anno pur di vedere riconosciuti i propri diritti». In fondo la richiesta era ragionevole, in considerazione dell’alta qualità del greggio (a bassa gradazione di zolfo e quindi particolarmente adatto alla trasformazione in carburante per auto e aerei) e della vicinanza della Libia ai mercati europei. Questo fatto diventerà ancora più importante dopo il maggio 1970, quando un sabotaggio interromperà in Siria la tap-line proveniente dall’Arabia Saudita. I governanti libici ricevettero un aiuto inatteso dall’esperto di petrolio del Dipartimento di Stato James Akins il quale, preoccupato dalle prospettive di una crisi energetica, sollecitò le Compagnie a scendere a patti con Gheddafi. La richiesta fu respinta al mittente dalle grandi società, con alla testa la Exxon, ma in Libia l’anello debole della catena era costituito dalle Compagnie indipendenti che non potevano permettersi di perdere le loro concessioni come minacciato da Gheddafi in caso di mancato accordo. La prima a cedere fu la Occidental Petroleum del miliardario statunitense Hammer, in quel momento sotto i riflettori perché accusato di aver corrotto alcuni funzionari del vecchio regime libico. Negoziando separatamente anche la Continental aveva rotto il fronte degli operatori. Le Sette Sorelle, dopo aver chiesto invano l’intervento del Dipartimento di Stato e del Foreign Office, capitolarono in ottobre, accettando le condizioni imposte alla Occidental. Ben presto le richieste di aumento di prezzo si diffusero oltre i confini della Libia: l’Iraq, l’Algeria, il Kuwait, l’Iran chiesero tutti un aumento dell’aliquota fiscale dal 50 al 55%. Nella conferenza di Caracas del 12 dicembre 1970 l’Opec sancì il principio che i 30 centesimi di aumento ottenuti dalla Libia divenivano il prezzo ufficiale di riferimento per tutti i paesi membri. All’inizio del 1971 la Libia di Gheddafi si trovava in una posizione di assoluto vantaggio nei confronti delle Compagnie che di fatto avevano perso il controllo sui volumi di produzione ed erano soggette al gioco al rialzo dei prezzi ed esposte alla minaccia di nazionalizzazioni.

Le Major sotto la guida della BP formarono un fronte comune di “difesa”: i rappresentanti di ventitré Compagnie sottoscrissero a New York, nel quartiere generale della Mobil, una lettera all’Opec nella quale si sollecitava un accordo generale tra le Compagnie e l’insieme degli Stati, allo scopo di evitare negoziati separati. Niente male, se si pensa che soltanto dieci anni prima le Compagnie si rifiutavano di riconoscere l’esistenza stessa dell’Opec. Inoltre, fu siglato un documento, rimasto segreto per tre anni, con cui ciascun firmatario prometteva di non concludere alcun accordo con il governo libico senza il consenso di tutti gli altri e si impegnava ad uno scambio di aiuto reciproco. Per l’occasione il Dipartimento di Giustizia, preposto all’anti-trust, girò la testa dall’altra parte. In risposta alla lettera delle Compagnie, lo Scià convocò una conferenza dell’Opec a Teheran al termine della quale, nel giorno di San Valentino, il 14 febbraio 1971, fu firmato un accordo che riconosceva un extra di 30 centesimi sul prezzo ufficiale del barile, da elevare a 50 a partire dal 1975. Ma solo gli Stati del Golfo furono totalmente favorevoli: l’accordo escludeva specificamente ogni impegno per i prezzi del petrolio nel Mediterraneo. La Libia, il Venezuela e altri Stati “radicali” si dichiararono contrari perché ritenevano che l’accordo limitasse il margine di azione dei singoli Stati membri nei confronti delle Compagnie. A soli quattro giorni dalla riunione di Teheran il governo di Tripoli, con l’appoggio dell’Algeria, dell’Iraq e dell’Arabia Saudita, iniziò nuove trattative separate con le Compagnie presenti nel paese e riuscì a strappare un aumento di 76 centesimi portando il prezzo base a 3,30 dollari al barile, oltre al rincaro delle imposte governative al 60%. L’accordo di Tripoli scavò un fossato tra la Libia e gli Stati del Golfo favorevoli a Teheran.

da http://international-communist-party.org

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