A sfamare il mondo in modo sostenibile non saranno né le multinazionali né Slow food

CJoK4ZTWgAA2zDy Pur non condividendo ogni passaggio di questo articolo, ci sembra interessante pubblicarlo: il punto è che oggi nel mondo si producono merci, tra cui il cibo, da vendere per realizzare un profitto, non quindi per la soddisfazione dei bisogni umani. Ciò avviene sia col “km zero” e i mercatini, sia a livello industriale e con la grande distribuzione. La quantità di merci prodotte da questo sistema schizofrenico diventa qualità: il cibo spazzatura, a buon prezzo, da ingurgitare nel minor tempo possibile, oppure il “cibo sano” ma costoso.

Per tale motivo è necessario battersi, da subito, per un mondo completamente diverso, dove poter finalmente disporre del proprio tempo senza costrizioni, in modo da curare la qualità delle nostre vite e, perchè no, del nostro orto.

Wolf Bukowski per Internazionale

I campi agricoli sono campi di battaglia. A farsi la guerra sono truppe di mercanti e mercenari, partigiani contadini, caporali del lavoro nero, fiancheggiatori della resistenza, funzionari di fondi sovrani che sottraggono terre a chi le coltiva da sempre. E poi le ong che sostengono i ribelli, ma anche quelle che promuovono piani di sviluppo rurale che rovinano la vita (e la dieta) di chi il presunto sviluppo lo subisce. Alla fine irrompono le masse coscritte dei braccianti migranti e quelle degli impoveriti consumatori occidentali. La posta in gioco? Continuare a sfamare i due terzi della popolazione mondiale con l’agricoltura contadina, oppure consegnare questo enorme mercato alle corporation del cibo e dell’agribusiness.

Rachel Laudan, che concentra il suo sguardo sulla tovaglia a scacchi di una finta osteria rurale, sembra non accorgersi della battaglia in corso. Ne percepisce il rumore, ma lo scambia per quello di una vivace discussione filosofica sul concetto di naturale e sul progresso. Certo, i ricettari patinati che si rifanno al tempo immaginario delle torte di Nonna Papera e le evocative (e banali) dicotomie di Slow food sono obiettivi polemici fin troppo comodi. Laudan colpisce senza pietà, ma anche senza misura. È lei, la studiosa, che dovrebbe sapere che quando si parla di cibo “naturale” e “tradizionale” non si intende crudo, selvatico, bacche e radici, ma semplicemente un po’ meno sofisticato, standardizzato, industrializzato. Laudan, invece, vuole vincere facile, ma ottiene una vittoria solo retorica. Sulla sostanza è elusiva più dei nostalgici del bel tempo andato, e mentre si compiace a inanellare le tappe di una ricostruzione storica di comodo, non sente il frastuono delle ruspe che spianano le foreste per farne palmeti da olio per biscotti industriali. Non sente il fragore della battaglia che continua. Scrive: il cibo moderno ci rende alti, forti e sani; la grande distribuzione ci porta le fragole in inverno; la pizza consegnata a casa ci salva le serate.

Pellagra e miseria

Ma quelle fragole costano al pianeta e ai suoi poveri molto più di quanto le paghiamo al supermercato, e se la pizza recapitata da uno sfruttato su due ruote ci salva la serata è solo perché la dura lotta per uno stipendio ci ha così tanto rovinato la giornata da non lasciarci la forza di portarla a casa da soli, quella pizza. E soprattutto: a renderci più sani e più forti non è il cibo moderno, ma lo sviluppo sociale che ci ha permesso una dieta ricca e variata. Come la pellagra non era causata dal mais ma dalla miseria che ne era l’unico condimento, allo stesso modo le malattie da cibo spazzatura degli statunitensi poveri dimostrano che il cibo industriale – se associato a un basso reddito e quindi a una dieta ripetitiva – intossica, invece di fortiicare.

Non è il cibo a determinare la storia, ci dice Gramsci, ma sono la storia e le trasformazioni sociali a modiicare l’alimentazione. E cioè, pensando al futuro: non sarà il cibo industriale a far vincere la battaglia agli affamati e agli sfruttati (anche perché spesso quel cibo è prodotto dagli stessi che li espropriano), ma non sarà nemmeno il cibo slow e fintamente tradizionale, che spesso sconfina nella monocoltura della tipicità. Sarà, e può essere, solo la resistenza che i più deboli opporranno al furto di terre, di ricchezza e di autodeterminazione.

Wolf Bukowski è un blogger. Ha scritto La danza delle mozzarelle. Slow food, Eataly, Coop e la loro narrazione (Alegre 2015).

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