Agricoltura contadina: una familiare sconosciuta

Riceviamo e pubblichiamo questo interessante contributo da parte di un compagno dell’assemblea di Mondeggi Fattoria Senza Padroni sull’agricoltura contadina.

Oggi più di ieri nel mondo occidentale, di fronte all’avanzare dilagante di una crisi sistemica che tutto sembra travolgere, il ritorno alla terra assume all’interno di una molteplicità di narrazioni un ruolo centrale. Altrove, d’altronde, alla terra l’essere umano è sempre rimasto attaccato: talvolta in maniera forzata, altre volte rifiutando esplicitamente di abbandonarla o di accettare soprusi, in ogni caso producendo conflitto. Di fronte a questo scenario, la parola “contadino”, ormai per i più abbandonata nel baule delle vecchie cianfrusaglie, torna ad emergere in tutta la sua attualità.

Questo contributo non vuol essere un’apologia dell’agricoltura contadina, né tanto meno il manifesto di un nuovo “contadinismo” scimmiottante il fermento operaista di qualche decennio fa. Ma se l’esperienza operaista insegna che servono i piedi di piombo quando ci si avventura nel terreno della produzione di soggettività antagonista, uno dei suoi lasciti più importanti consiste nell’aver ricordato che tutto è una questione di punti di vista: l’universalità non esiste, la conoscenza è sempre di parte. Ecco, questo scritto vuol essere un’espressione del “punto di vista contadino”, che guarda a se stesso e ai luoghi comuni con cui viene dipinto da una posizione privilegiata: la propria.

L’idea è di farlo attraverso le risposte ad alcune FAQ poste da un ipotetico (quanto socialmente molto diffuso) interlocutore.

Bene, innanzi tutto vorrei farmi un po’ di chiarezza. Non sono molto esperto e tutte queste definizioni mi confondono: capisco che è qualcosa di diverso dall’agro-industria, ma quale sarebbe la differenza tra agricoltura contadina e quella, che so, biologica, biodinamica, ecologica ecc.? E poi, da che ne so io, ci sono molti contadini che tutto fanno fuorché rispettare l’ambiente.

Se proprio si vuol trovare una definizione sintetica, si potrebbe affermare che l’agricoltura contadina è il prodotto dell’evoluzione millenaria che ha riguardato il sapere agricolo, dalla sua nascita fino alla cosiddetta Rivoluzione verde. Per cui no, il vecchietto che si ritiene tradizionalmente contadino ma inonda le proprie piante (e spesso se stesso) con ettolitri di fitofarmaci non è tale; tutt’al più può essere considerato un ibrido prodotto dal suddetto processo. Vale quindi la pena capire perché considerare questo momento storico uno spartiacque.

Nata da ricerche condotte nella prima metà del ventesimo secolo (finanziate dalla Rockfeller Foundation), volte ad incrementare in maniera scientifica le produzioni agricole, la Rivoluzione verde ha introdotto la quasi totalità degli accorgimenti divenuti in pochi anni patrimonio degli agricoltori di mezzo mondo: miglioramento genetico spinto, introduzione di macchinari pesanti, uso massiccio di fertilizzanti chimici, fitofarmaci e diserbanti. Ciò in un primo momento sconvolse il mondo rurale: le rese aumentarono in maniera esponenziale, facendo intravedere orizzonti di benessere e prosperità. Ma, come ogni miracolo scientifico, anche questo non tardò a mostrare i suoi lati oscuri: dipendenza totale da combustibili fossili e aziende produttrici di sementi, abbattimento della biodiversità, degradazione dei suoli, inquinamento dell’ambiente, e cali della produttività nel medio-lungo periodo.

Molto ci sarebbe da approfondire, ma purtroppo non è questa la sede per farlo. Basti sapere che, in risposta a tutto ciò, sono nate (o sono state rivisitate e promosse) differenti correnti di pensiero, più o meno simili tra loro ma tutte caratterizzate dall’adozione di un modello agricolo diverso, maggiormente rispettoso degli equilibri naturali; da qui per esempio l’agricoltura biologica, che rifiuta l’uso di prodotti chimici di sintesi. É inoltre un dato di fatto che oggi, spesso, queste scelte siano orientate esclusivamente dal marketing.

Diciamo che, per ovvi motivi, ognuno di questi metodi alternativi pesca in maniera più o meno consistente dal sapere contadino, senza eccezione alcuna. Esiste però chi lo rivendica in maniera diretta, e chi invece ritiene il proprio agire l’ennesima tappa di un’evoluzione deterministica e lineare, sforzandosi talvolta di mascherare la propria arcaicità: i secondi sono agricoltori a cui non pesa definirsi “imprenditori agricoli”, i primi contadini.

I contadini, da che mondo è mondo, fanno la fame. Come si può sfamare un mondo in costante crescita demografica con un’agricoltura estensiva e dalle basse rese?

Innanzi tutto sgombriamo il campo da un equivoco di fondo: l’agricoltura contadina non è estensiva; si può viceversa definire intensiva a tutti gli effetti.

L’agricoltura estensiva, al giorno d’oggi, coincide col modello gestionale utilizzato dalla Rivoluzione verde in poi per le grandi superfici agricole: bassa biodiversità, scarso impiego di manodopera, rese unitarie basse, notevole ricorso alla tecnologia (macchine, fertilizzanti e diserbanti in primis); l’agricoltura intensiva invece, operando nella maggior parte dei casi su superfici ridotte, tende a sfruttare al massimo le capacità produttive dell’agro-ecosistema. Ciò di per sé fornisce indicazioni soltanto parziali, essendo entrambe queste tipologie interpretabili in maniere completamente differenti.

Un obiettivo come quello della massimizzazione della resa, infatti, può essere perseguito attraverso la massiccia immissione di input esterni e/o attraverso la cura costante dei processi produttivi da parte dell’uomo. Ciò significa, nel caso dell’agricoltura contadina, eseguire le operazioni nei tempi corretti, mettere in atto strategie gestionali comprendenti l’agro-ecosistema nella sua interezza, diversificare le specie vegetali e animali per chiudere i cicli della materia, e molto altro ancora; di fatto tutto ciò si traduce in una mole di lavoro maggiore, sia nel campo materiale che soprattutto in quello della conoscenza. Solo in questo modo si può al contempo assicurare la gestione equilibrata delle risorse, la loro riproducibilità, il rispetto dell’ambiente, l’autosufficienza del processo produttivo, e ovviamente produzioni soddisfacenti. Viceversa questa maggiore richiesta di manodopera è proprio ciò che la moderna agricoltura industriale, così come la produzione industriale propriamente detta, tende a considerare il fattore limitante, agendo sul capitale costante con l’unico obiettivo di abbassare i costi di produzione.

Tornando a parlare di resa per unità di superficie, che poi di fatto è il parametro principale che interessa per determinare il carico umano sostenibile da una porzione limitata di suolo, l’agricoltura contadina spesso non ha nulla da invidiare ai modelli che si prefiggono di sorpassarla. E infatti, a dispetto di chi la considera estinta, essa continua a essere adottata da circa l’80% (FAO, 2014) delle attività agricole a livello mondiale; la differenzia l’attenzione, fondamentale, alla conservazione delle risorse naturali da cui dipende. A sostegno di questa tesi, potenzialmente soltanto pregiudiziale, si possono citare gli studi di R. H. Richaria, genetista indiano del secolo scorso specializzato in riso, che hanno dimostrato la sostanziale inutilità delle varietà migliorate ad alto potenziale: anche le varietà tradizionali, se coltivate in maniera corretta, sono in grado di attestarsi intorno a rese simili; oppure le più recenti statistiche sulla maiscoltura italiana, che vede le proprie rese produttive in costante calo (ISMEA, 2014; Nomismo, 2011) a causa degli effetti collaterali della monocoltura.

Un discorso a parte è quello relativo ai consumi: probabilmente nessun modello agricolo, nemmeno quello industriale iper-tecnologico è in grado di fornire a tutti, in ogni parte del mondo, un’offerta costante e pressoché illimitata di alimenti ad alto costo energetico (ad esempio la carne bovina). Risolvere le enormi asimmetrie alimentari che affliggono il pianeta, garantendo l’accesso al cibo e combattendo gli sprechi lungo la filiera, resta probabilmente un lavoro da svolgere in parallelo all’adozione di modelli agricoli “altri” rispetto all’agro-industria del capitale.

I miei nonni erano contadini: vivevano in un mondo dalle profonde disuguaglianze sociali, all’interno di schemi rigidamente patriarcali e, soprattutto, conducevano una vita di stenti e privazioni. Che senso ha aver nostalgia di tutto questo?

Altro equivoco da chiarire: l’agricoltura contadina non deve essere sovrapposta in toto a quella civiltà contadina pre-capitalista che per millenni ha rappresentato la base produttiva di ogni società, e che ancora oggi, in ampie zone del mondo, impiega la gran parte della forza lavoro.

Innanzi tutto va ricordato che, sia al giorno d’oggi che in una prospettiva storica, la realtà contadina è/è stata lontanissima dall’essere omogenea. Sotto quest’etichetta troppo spesso (e con fin troppa superficialità) sono stati accostati periodi storici, aree geografiche e contesti culturali estremamente diversi tra loro, accomunati soltanto dalla posizione di centralità detenuta dall’agricoltura. Un’agricoltura che, rifiutando o non avendo a disposizione le moderne facilitazioni già citate, si basa su un’attentissima osservazione dei processi naturali, una ricerca empirica senza soste, un alto impiego di manodopera e una costante e reciproca cooperazione umana. Queste a grandi linee possono essere assunte come le fondamenta dell’agricoltura contadina da difendere e far vivere qui ed oggi: un modo di praticare l’attività agricola che di fatto consiste in un vasto insieme di tecniche, quindi, piuttosto che un indefinito modello sociale plasmato dalle contingenze storiche, e pertanto irriproducibile.

É attraverso questa lente, pragmatica e per niente nostalgica, che va osservata quella disomogeneità prodotta dalle rivendicazioni culturali contenute nelle attuali istanze contadine: laddove permane un’eredità storica precisa e radicata, questa si contrappone in modo pressoché naturale al conformismo neo-liberista; laddove viceversa il capitale abbia raggiunto un elevato grado di sviluppo e abbia imposto il proprio modello sociale, si assiste ad un rigetto culturale che parte da un piano politico-economico per approdare su quello, molto più intimo, esistenziale. Da qui l’attualizzazione di tradizioni e folclore in quanto possibilità di combattere l’alienazione dell’uomo nei confronti dei processi naturali; opportunità, però, lasciata alla completa discrezione di individualità che vedono il loro comune “essere contadini” nel modo in cui praticano l’agricoltura.

Ma oltre alla tecnica le civiltà contadine hanno/avevano un altro comune denominatore, forse ancora più universale rispetto alle pratiche agricole condivise: lo sfruttamento più o meno intenso dell’uomo sull’uomo. Basta guardarsi indietro, rimanendo in una dimensione di prossimità geografica, per osservare come il filo conduttore che lega il servaggio di epoca feudale alla mezzadria è il tributo, a volte salatissimo, estorto ai contadini come contropartita rispetto al poter disporre della terra; una terra la cui distribuzione, ancora oggi, è oggetto di dinamiche diverse ma simili, e soprattutto è quanto mai squilibrata. E anche laddove il contadino sia proprietario della terra che coltiva altre dinamiche perverse, legate per lo più alla scala di commercializzazione dei prodotti, lo rendono comunque vulnerabile. Non si può sottovalutare quanto queste variabili abbiano pesato e pesino su un numero incalcolabile di vite, cambiando conseguentemente di segno la percezione collettiva della “miseria” contadina; non si può fare a meno di pensare, quindi, l’agricoltura contadina senza inserirla in una dimensione di lotta: la lotta contro i padroni della terra, manifestata talvolta da periodici e violenti moti di ribellione, e la lotta contro un Mercato che nei contadini identifica una soggettività ribelle talvolta da riformare, talvolta da vessare, talvolta da estinguere.

Non capisco perché, laddove lo sviluppo tecnologico consente di ottimizzare le risorse, offrendo produzioni maggiori e diminuendo fatica e lavoro, ci sia chi ancora continua a opporsi a priori al progresso. Ma cosa dovremmo fare, tornare a fare dieci figli ciascuno e a lavorare la terra con i buoi?

La riluttanza ad adottare le soluzioni offerte dal progresso tecnologico è un altro luogo comune che spesso viene addossato all’agricoltura contadina; ma se ciò è così frequente, è perché probabilmente c’è del vero. Il contadino, in fondo, viene incarnato dall’immaginario collettivo in un nostalgico sognatore dalle mani callose e dalla schiena spezzata, che guarda con disprezzo quei dispositivi che in qualche modo lo fanno apparire antiquato, sorpassato. Tutto ciò è in qualche modo corretto: il punto di vista contadino nei confronti della tecnologia spesso è sprezzante; ma cercarne le cause in un innato istinto retrogrado è un errore che costantemente viene messo in atto addirittura da parte di chi si approccia a questo mondo in buona fede.

Il punto principale, espresso nella sua crudezza, è questo: il progresso di cui si parla è tutto fuorché neutrale; o meglio: potrebbe esserlo, ma soltanto in potenza. Le sue potenzialità oggettivate, invece, ovviamente rispondono ad esigenze precise, determinate all’interno di quel processo dialettico da cui nasce la realtà sociale nella quale ci muoviamo. Detto in altre parole, le innovazioni tecnologiche espresse dall’agricoltura negli ultimi decenni hanno avuto come fondamenta un solo elemento: il profitto. Che sia quello dell’imprenditore agricolo, dell’azienda che produce parti meccaniche o della multinazionale delle sementi non importa: sono tutte facce della stessa medaglia. Questo è il motivo che spiega la riluttanza, lo scetticismo contadino che al progresso pone costantemente questo quesito: dove termina la reale utilità di ciò che esso propone, e dove invece inizia la sua futilità, la sua incompatibilità con l’eco-sistema, il suo essere strumento di profitto e di dominio?

Ovviamente ogni dispositivo fa caso a sé, e per ognuno esiste una risposta, un grado di accettazione che, entro certi limiti, rende il mondo contadino bello perché vario. Quindi, tornando alla seconda parte del quesito, la risposta è sì e no allo stesso tempo: ci sono contadini che lavorano la terra con i buoi, così come altri utilizzano trattore o motosega; ci sono contadini che creano artificialmente eco-sistemi quanto più possibile simili a quelli naturali, e altri che coltivano le proprie piante protette dalle serre; i più fanno un uso critico e parsimonioso delle soluzioni più impattanti, limitandole a quello che ritengono lo stretto indispensabile. Ma ognuno rivendica, ad esempio, il diritto di riprodurre i propri semi, di fare a meno di pesticidi ed erbicidi, di non trasformare i propri campi in geometrici deserti per non intralciare l’incedere di macchine di cui possono fare a meno. Questo è un confine che sembra labile soltanto all’apparenza: è la sostanziale autonomia da terzi (decisionale e del processo produttivo) l’autentico denominatore comune che lega tra di loro le scelte contadine; e quest’autonomia è proprio ciò di cui si cerca di privarle, attraverso le armi delle leggi di mercato e della giurisprudenza.

Se si assume che il modello agro-industriale, coincidente di fatto col pieno dispiegamento delle forze produttive nel campo della produzione di cibo, è irriformabile sotto una molteplicità di punti di vista, ecco che la base di sapere contadina assume una centralità determinante. Il suo confliggere col “progresso” in realtà è una considerazione assolutamente miope: basterebbe direzionare la ricerca verso un’implementazione di questo sapere millenario, nel rispetto dei suoi principi, e ogni attrito cesserebbe di essere tale. Basterebbe, quindi, che lo scettro del potere tecnico-scientifico fosse strappato dalle mani che lo detengono; e come tutti sappiamo è una sfida tutt’altro che facile.

Va bene, figo fare l’orto, vivere in campagna e tutto il resto. Ma quale sarebbe la valenza politica di tutto ciò? Come si può confondere una scelta del genere, privata e spesso auto-escludente, con una proposta estendibile a tutti? E soprattutto, davvero qualcuno ancora pensa che ritornare alla terra possa risolvere e superare le contraddizioni del capitalismo?

Di una cosa si può essere certi: i contadini non salveranno il mondo, non lo libereranno dalle grinfie del capitale; non da soli, almeno. Così come da soli non potranno farlo i lavoratori dell’industria meccanica o della logistica, il precariato intellettuale o gli occupanti di case. Utilizzare questo metro (cercare “il” soggetto di riferimento) porta in maniera quasi inevitabile a una visione frammentaria della realtà, che impedisce di leggerla in tutta la sua complessità. Ma anche questa, purtroppo o per fortuna, è una questione di cui non è il caso di dibattere adesso.

Purtroppo la percezione del mondo contadino all’interno dei circuiti militanti è spesso viziata dal pregiudizio: nella migliore delle ipotesi questa scelta è vissuta come un isolamento volontario, la romantica evasione da una realtà che non si ha interesse a trasformare, lontano dai conflitti della metropoli; nella peggiore i contadini sono visti come una casta di piccoli proprietari terrieri, e in quanto tali appartenenti alla categoria degli oppressori, più che a quella degli oppressi. Anche in questo caso qualcosa di vero c’è: alle volte la prima ipotesi, soprattutto alle nostre latitudini, è calzante, così come è innegabile che talvolta il contadino sia il proprietario della terra che coltiva, ossia del suo mezzo di produzione principale.

Eppure se così fosse, se il settore fosse così “pacificato”, cosa potrebbe spiegare l’accanimento con cui il mondo economico-finanziario e quello politico, forti delle proprie armi, provano ad attentare alla sopravvivenza contadina? La questione, in questo caso, è evidentemente ontologica: nel mondo del capitale il contadino non può essere; è costretto a divenire altro: imprenditore, salariato, operaio, disoccupato, ma non contadino. Molti intellettuali, in giro per il mondo, danno addirittura i contadini per estinti. Immediato sorge quindi un altro quesito: perché?

La risposta, probabilmente, va cercata nella già citata irriducibilità culturale, che fuori da ogni apparente logica (quasi sempre mettendo l’aspetto economico in secondo piano) insegue e coltiva un modello di vita diverso, e nel rapporto con le risorse che rendono quest’ultimo possibile; risorse che, gestite in modo tale da evitarne il depauperamento,resistono al continuo processo di mercificazione. Questo probabilmente è il punto più importante: il capitale non desidera superare l’agricoltura contadina in quanto antidiluviana e non produttiva, bensì vuole radere al suolo le sue fondamenta logiche, ossia ciò che in maniera apparentemente irrazionale (e a volte anche inconsapevole) continua a porlo radicalmente in discussione.

L’agricoltura contadina, insomma, può non essere l’arma di lotta più affilata, così come il ritorno alla terra, anche per evidenti questioni numeriche, non potrà rappresentare da solo la via d’uscita alle contraddizioni di sistema. Resta però un’attività di resistenza, che dà vita a sacche più o meno grandi in giro per il pianeta: salvaguardarla e sostenerne le lotte, saldando i legami tra città e campagna, è importante per i motivi appena esposti, ma non solo. Pragmaticamente parlando, evitare l’estinzione del sapere contadino è fondamentale: un modello diverso di gestione del territorio, rispettoso dell’ambiente e degli esseri umani, non può prescindere dalla sua conservazione e dalla sua traduzione pratica. Abbiamo adesso quest’opportunità e dobbiamo sfruttarla: si tratta di attivarsi per far restare oggi questo tipo di agricoltura nelle mani di tutti coloro che desiderano metterla in pratica, evitando che un domani finisca per essere soltanto patrimonio degli archeologi.

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