Il primato dei beni non esclusivi come chiave dello sviluppo umano pleromatico

Riportiamo qui il testo di un intervento tenuto a Cuba da Luigi Lombardi Vallauri, per quarant’anni ordinario di Filosofia del diritto presso l’università di Firenze. Benché la prospettiva esposta non sia condivisibile in pieno (la particolare insistenza sull’idea di libertà, che inserisce Vallauri nella tradizione del pensiero liberale,  la necessità della nonviolenza nell’azione politica) troviamo che il pensiero di questo filosofo offra degli spunti di riflessione unici per coloro che si pongono in un’ottica di superamento dello stato di cose presente in chiave anticapitalista.

1. Il modello cubano: relitto o prototipo?

La domanda su Cuba che tutti forse gli osservatori stranieri non ostili si pongono nella situazione geopolitica e geo-economica attuale, è se Cuba va considerata come un relitto di socialismo reale destinato a essere sommerso dallo tsunami del capitalismo globalizzato non appena si estingue il gruppo dirigente guidato e impersonato da Fidel Castro, oppure Cuba costituisce una specie di prototipo di un modello di sviluppo che è (con varianti, naturalmente) forse l’unico proponibile a tutta l’umanità, e non solo a una minoranza ricca e prepotente. In sintesi: se Cuba è un frammento di passato o di futuro.

La domanda può essere letta in senso futurologico o in senso assiologico: nel primo caso riguarda il prevedibile, i fatti; nel secondo riguarda l’auspicabile, i valori. Non si tratta però di due piani completamente separati: “passato” e “futuro” significano sia degli insiemi di eventi situati nel tempo, sia “ciò che merita di essere superato” e “ciò che merita di accadere”. Se un certo modello rappresentasse il solo fattualmente possibile, pena il disastro per la maggior parte degli uomini e per la vivibilità del pianeta, ebbene questo modello potrebbe, una volta tanto, vedere i fatti schierati dalla stessa parte dei valori. L’impraticabilità fattuale del male sarebbe un argomento a favore del bene.

La mia riflessione è filosofica: so di non saper prevedere empiricamente. Per esempio, non avrei mai saputo prevedere cose come la guerra in Iraq o i neofondamentalismi cattolici. Intendo chiarire il valore di certe scelte e le loro conseguenze logicamente, strutturalmente necessarie. Questo chiarimento filosofico dovrebbe fornire elementi, a chi conosce i fatti meglio di me, per rispondere alla domanda iniziale sul modello cubano.

2. Politica del desiderio e individualismo possessivo

Io credo che qualunque politica del diritto resta fatalmente inefficace (producendo norme scarsamente effettive) se non è accompagnata e sostenuta da una corrispondente politica del desiderio. E anche la politica dell’economia (della produzione e della distribuzione) presuppone, o addirittura è, una politica del desiderio. D’altra parte la scienza necessaria per giudicare un regime politico (politico-giuridico, politico-economico) è la scienza del giusto desiderio. Se dunque si riesce a generare, con mezzi leali, il giusto desiderio, si può, invece che controllare e costringere, convincere; e convincere, come sanno tutti i genitori e tutti gli educatori, è più efficace ed è meglio, è più nobile, che controllare e costringere.

Ora, quale desiderio egemone regna oggi nelle società scientifico-tecnologicamente, economicamente, militarmente evolute? Il desiderio – la sete – di ricchezza, potere, notorietà-successo: i tre beni che nella mia terminologia definiscono l’individualismo possessivo. Il quarto desiderio – la quarta sete – è quello del piacere inteso sia come verbo all’infinito (piacere a, esercitare attrazione, fascino) sia soprattutto come sostantivo (godimento); lo metto a parte, perché quando non nasce direttamente dal possesso dei primi tre beni ha caratteri fenomenologici alquanto diversi. Dovendo riassumere in una formula strategica brevissima la cultura dominante che ha spiazzato, sull’intero pianeta, le culture tradizionali, direi: scientismo tecnologico + individualismo possessivo. Il compito principale della filosofia oggi è dunque la valutazione critica (che può benissimo farsi separatamente) dello scientismo tecnologico e dell’individualismo possessivo, i due “ismi” che sono un po’ la ragione teoretica e la ragione pratica del moderno. Rinviando ad altri lavori per la critica dello scientismo tecnologico o del riduzionismo (1), mi concentrerò qui sull’individualismo possessivo, che è poi il più rilevante in termini di desiderio.

La cosa impressionante da rilevare preliminarmente è che l’individualismo possessivo è talmente egemone da accomunare non solo New York e Mumbai, Shanghai e Rio, Mosca e Milano, ma anche la destra e la sinistra, i ricchi e i poveri, i capitalisti e i lavoratori, gli idoli sociali e i criminali, gli Stati e le mafie. Il socialismo e il sindacalismo materialisti dei paesi “liberi” tendono a distribuire secondo un modello egualitario anziché elitario il profitto e il potere, ma non a superare i valori stessi profitto e potere, che anzi sono interiorizzati dagli strati subalterni, operai o terziari, con una fede candida e indivisa. Le riforme proposte dalla sinistra hanno raramente superato il progetto di una società “tutta di borghesi” (borghesi emancipati, non già i borghesi virtuosi classici). La sinistra e i sindacati, cioè le sedicenti guide della rivoluzione, spesso non sono stati altro che i potenti altoparlanti egualitari, tra le masse, della cultura egemone. Questo ha fatto, tendenzialmente, dei “colletti blu” e dei “colletti bianchi” nord-occidentali, consumatori mai sazi, nel loro rapporto con i paesi poveri, dei “borghesi del mondo” ben più numerosi, e dunque pericolosi, della borghesia elitaria classica. L’introiezione della cultura egemone da parte delle masse dell’intero pianeta contribuisce, poi, potentemente alla sofferenza animale e al degrado ecologico. Ma l’individualismo possessivo accomuna, anche, le star del profitto e del potere legali e le mafie. Una cultura secondo la quale i soli astuti e interessanti sono i ricchi i potenti i famosi, la vera riuscita umana è il successo in quei tre (e segnatamente nei primi due) campi, è una cultura, a tutti i livelli sociali, intensamente criminogena. Infelice quel paese in cui circola l’idea che il crimine è una via sbagliata per raggiungere gli obbiettivi giusti, in cui gli uomini di successo e i grandi criminali si distinguono in base ai mezzi più che ai fini, in cui gli onesti e i disonesti condividono uno stesso ideale e uno stesso desiderio. L’omogeneità di valori/beni/fini (diciamo l’omogeneità di antropologia, di concezione dello “sviluppo della persona”) tra destra elitaria, sinistra egualitaria e criminalità organizzata è imbarazzante; e l’imbarazzo aumenta ancora se si osserva che gli Stati stessi, almeno in politica estera, ricercano il profitto e il potere come beni unici o prevalenti. Il diritto internazionale affannosamente si adopera a regolare questa ricerca ma non la discute; assume come ovvio che, quanto a desiderio, gli Stati siano degli individualisti possessivi. Di fatto, attraverso le immense carneficine pubbliche eufemisticamente chiamate guerre, gli Stati hanno commesso, per il profitto e il potere, crimini che il più paranoico boss mafioso non ha probabilmente mai nemmeno sognato.

3. Critica dell’individualismo possessivo

Cosa ha da dire, sull’individualismo possessivo, la filosofia intesa come scienza del giusto desiderio?

La risposta esigerebbe di ripercorrere un’immensa tradizione di pensiero, ramificata quanto la riflessione etica (nel senso più ampio) dell’intera umanità, orientale e occidentale, antica e moderna, «primitiva» e «civilizzata». Mi sembrano evidenziarsi due alti luoghi: la filosofia grecoromana classica, con la sua attenzione assidua al problema della «vita buona», del «vivere bene», con la sua critica assidua, sotterraneamente ossessionante dell’ideale del «tiranno» (dell’uomo ricco-potente-gaudente-senza-limiti); la spiritualità orientale, con la sua sperimentazione appassionata intorno agli stati più alti, trascendenti e al limite divini, della coscienza. Il lignaggio abramitico (ebraismo, cristianesimo, islamismo) si presenta secondo la modalità autoritativa, non rappresentativa e non sperimentale della rivelazione soprannaturale; alcuni suoi risultati sono comunque degni di attenzione, molti insegnamenti hanno un valore «naturale» di analisi fenomenologica e filosofica. Tra gli autori recenti penso in primo luogo a filosofi come Scheler e Jaspers, a psicologi come Binswanger e Maslow, ma anche alle correnti spiritualiste e esistenzialiste francesi e italiane. Mi sembra di vedere delinearsi con chiarezza un certo numero di tratti sicuri.

3.1. Critica sul piano individuale

Per prima cosa, senza contestare la legittimità delle libere rinunce ascetiche, bisogna riconoscere l’avere e il potere, la fama/prestigio e il piacere come valori reali. Basta pensare all’ipotesi contraria: è assurdo sostenere che la miseria e l’espropriazione, l’impotenza, la vita oscura, la frustrazione o la sofferenza possano essere la realizzazione plenaria dell’uomo. Tuttavia l’analisi potrebbe essere approfondita in positivo: significato esistenziale della proprietà come indipendenza, libertà d’iniziativa e di scelta, autoresponsabilità economica; funzione consolidante, unificante, ordinante del potere; giustizia dell’esigenza che la «luce» autentica non resti nascosta, ma sia conosciuta e brilli «sulla montagna»; spiritualità intima e molto alta della natura del piacere dal punto di vista della psicologia metafisica, normale affidabilità del piacere come segno della pienezza ontologica.

Si deve vederne tuttavia anche le potenzialità distruttive e i limiti. La sete di ricchezza è probabilmente la più diffusa malattia mortale dell’anima umana. Essa falsa, contamina tutto, deforma sia le professioni che le relazioni interpersonali; reifica il mondo sottraendogli la sua bellezza intrinseca e gratuita, facendo passare la coscienza dalla «parola fondamentale Io-Tu» alla «parola fondamentale Io-Ciò» (Buber), possiede il possessore, è all’origine della maggior parte dei generi di crimine. Si potrebbero fare, mutatis mutandis, delle osservazioni simili anche sulla sete di potere, la sete di prestigio e di notorietà, la sete di piacere. Da quest’ultimo punto di vista, l’universo di Sade è l’affresco grandioso e miserabile di una apparente sovranità/libertà assoluta che si disvela come assurdità e dipendenza. La quadruplice sete è davvero la radice dell’infelicità e della violenza millenaria e attuale dell’uomo sull’uomo. È perché essa scava il suo percorso nella direzione di valori veri, legati alle forme fondamentali della reale indigenza ontologica dell’uomo, che questa radice non può essere estirpata; sono la sua dismisura e il suo orientamento egoico ad alimentare le sue spaventose potenzialità distruttive e a esigere correzione.

La correzione sarà tanto più efficace e profonda quanto più chiaramente si percepiranno i limiti dei quattro valori evocati o degli oggetti che ne costituiscono i supporti. Lasciando per il momento da parte il piacere, non si può non constatare che le ricchezze, il potere e la notorietà sono beni esterni, vale a dire beni che non qualificano direttamente il soggetto che li consegue: non sono beni propri né della sua anima, né del suo corpo. E sono esterni ugualmente nel senso che non può conseguirli senza il favore delle circostanze, anzi talvolta sono dovuti esclusivamente a queste. Si può diventare ricco, potente, celebre senza nessun merito e addirittura a propria insaputa, per esempio ereditando un patrimonio o una posizione sociale, oppure (penso ora alla notorietà) per l’effetto inatteso della stupidità umana. Questi beni dicono quindi molto poco sul valore di chi li detiene, e anche sulla sua felicità. Perché il ricco, il potente, il famoso potrebbe anche essere cattivo o triste (beni dell’anima), brutto, debole o malato (beni del corpo). Il piacere è senza dubbio un bene molto più intrinseco, ma esso stesso chiede di essere attentamente criticato, se non altro perché molti piaceri immediati sono nocivi, possono costare sofferenze molto maggiori e devono quindi essere sottoposti al calcolo, fastidioso, della ragione. Non si può godere e basta; bisogna, per godere molto, darsi molta pena. L’arte del godere è spesso un’arte della rinuncia.

I limiti dei quattro valori criminogeni possono mostrarsi anche da altre prospettive. La ricchezza, in particolare, sembra avere per l’anima un’importanza proporzionale alla sua debolezza e insoddisfazione profonda. Il forte, nell’esercizio stesso della forza e della grazia, si veste leggermente, semplicemente, in ogni caso funzionalmente. Il coraggioso non si aggrappa alla protezione di un patrimonio in continuo aumento. Il giovane è per natura meno avaro del vecchio, la bellezza meno avara della bruttezza. Le situazioni di pienezza, le peak experiences rendono spontaneamente poveri; l’amore nel suo primo rapimento si contenta di quasi niente, basta a se stesso, strappa alle avidità e inquietudini proprietarie; la saggezza, la contemplazione estetica o mistica, non «possiedono», «aprono a»; l’ispirazione creatrice non tesaurizza, ma zampilla abbondante, dona, suscita, fa schiudere. Si può dire con sicurezza fenomenologica che un uomo preoccupato di ricchezza è un povero uomo; che non gli toccano in sorte magnanimità e nobiltà, ma piuttosto pusillanimità e meschinità; che l’anima del possessivo è un’anima di paura e di tristezza; che chi pensa all’avere è almeno momentaneamente in carenza di amore, di contemplazione sapienziale e di creatività. L’analisi dell’anima dell’uomo di potere, per la quale manca il tempo, si rivelerebbe devastante.

I limiti delle quattro seti criminogene si percepiscono ancora più rigorosamente se le si esamina secondo il criterio della giustizia o della giustezza dello sguardo che esse gettano su gli esseri e le cose. Perché esse non influenzano soltanto l’affettività e il desiderio, ma anche la conoscenza e la percezione.

Sarebbe agevole fare delle osservazioni fenomenologiche sullo sguardo povero, sullo sguardo non dispotico, sullo sguardo non ambizioso come sguardi di verità (2). Ma io credo che l’orientamento generale della critica filosofica ai valori dell’individualismo possessivo è ormai chiaro. Resta da criticare il centro stesso dell’individualismo possessivo: la curvatura egoista o egoica del desiderio nei suoi molteplici aspetti esaminati fin qui separatamente. Questa curvatura è probabilmente l’origine principale (non dico l’unica) delle potenzialità distruttive del desiderio illimitato di valori in sé buoni. La sua critica è la più facile. È certo infatti che l’io non è il centro del mondo. Una buona parte della saggezza consiste nel passare da un punto di sguardo ego-centrico a un punto di sguardo onto-centrico. È questa una cosa che, per la sua evidenza, nessuno contesta sul piano teorico, ma che è estremamente difficile da tradurre in concreto, al punto che gli stati supremi della coscienza sapienziale, sia non teista che teista, non sono fondamentalmente diversi dalla realizzazione stabile, beatificante, liberante, di questo vissuto. La collocazione dell’«io odiabile» (Pascal) al centro del mondo è l’avvio criminogeno per eccellenza. Ora essa è certamente sbagliata. La critica del soggettivismo assoluto (individuale o collettivo) moderno è quindi ben sicura del fatto suo. L’orientamento egoico s’oppone frontalmente all’orientamento pleromatico della coscienza, che solo ne costituisce la verità. Inoltre, poiché nessun io umano, individuale o collettivo, esaurisce l’umanità dell’uomo, l’io stesso sarebbe mutilato e ridotto da qualunque danno strumentalizzante volesse recare, nel proprio mal compreso interesse, allo sviluppo di ogni altro uomo.

3.2 Critica sul piano sociale

Abbiamo fin qui criticato i valori dell’individualismo possessivo mostrandone i limiti in rapporto al soggetto stesso, cercando soprattutto di mostrare in quale senso essi sono insoddisfacenti o incompletamente soddisfacenti. Ma i loro limiti si manifestano ulteriormente (e le loro potenzialità distruttive si spiegano più chiaramente) se si esaminano questi stessi valori in quella che chiamerei la loro proiezione sociale, vale a dire in rapporto allo «spazio» dove i soggetti individualisti-possessivi di ogni statura interagiscono ed evolvono. È per me un punto cruciale della filosofia politica e della criminologia.

Questi beni (la ricchezza, il potere, la notorietà, il piacere che ne nasce) non sono soltanto beni incompletamente soddisfacenti sul piano individuale, sono anche, sul piano sociale o sistemico, beni esclusivi, cioè beni il cui possesso o godimento da parte di un soggetto esclude (o riduce) per essenza il possesso o godimento da parte degli altri. La ricchezza intesa come insieme di oggetti materiali è esclusiva perché la mia proprietà esclude la tua, perché i beni materiali sono comunque limitati e perché essi, in quanto non interpenetrabili, si escludono a vicenda nello spazio, così che l’accrescimento di uno equivale al decremento dell’altro (infinite automobili = zero strada, infinite strade = zero paesaggio, infiniti yacht = zero mare). Il potere e la notorietà sono esclusivi perché comparativi, occorre averne più degli altri: pari potere = zero potere, pari notorietà = zero notorietà, un accrescimento generalizzato di potere o di notorietà è un concetto privo di senso (3).

Dunque una cultura dell’interesse prevalente per i beni esclusivi, cioè una cultura dell’individualismo possessivo, è per essenza generatrice di conflitto non episodico o congiunturale, ma logicamente necessario, permanente e strutturale; e dunque è intensamente criminogena (4), perché nell’ambito dei beni esclusivi l’espansione di un soggetto avviene a danno di quella degli altri, ciò che suggerisce il ricorso alla forza o alla frode. Diventa allora indispensabile reprimere il conflitto nelle sue forme più violente o sleali con il diritto penale e moderarlo dandogli delle regole, modellandolo in forme considerate accettabili, con il diritto non penale. Ma la repressione, la moderazione, la delimitazione, il controllo non bastano a fermare il desiderio di un’anima di uomo persuasa che i soli oggetti desiderabili sono quelli nella ricerca dei quali gli si impone moderazione. L’uomo non vive solamente di moderazione. L’uomo è fatto per l’illimitato. Diventa dunque essenziale scoprire beni al tempo stesso profondamente soddisfacenti per il desiderio e per la realizzazione autentica dell’uomo e socialmente non esclusivi.

4. Valori autentici, beni non esclusivi

Questi beni esistono. Sono i beni del corpo, della mente e della relazione affettiva, cioè delle tre dimensioni costitutive dell’umano. Quando qualcuno mi chiede cosa desidero rispondo: “un corpo sano, infaticabile e dotato di tutte le abilità; una mente infinita, colta e contemplativa; e tanto, tanto amore”. Non ho nominato in nessun modo l’avere, il potere e la notorietà/successo. Però ho nominato dei veri e propri beni. La piena salute, il vigore e la resistenza fisica, il fiorire anche estetico del corpo, le abilità sportive, i saper-fare intesi come technai o arti, i saperi teorici, le scienze (ma anche le conoscenze di natura più semplice, come le lingue), le virtù etiche e dianoetiche, la saggezza in senso forte come sophia o sapientia, le amicizie-solidarietà o koinoníai, le amicizie personali o philíai, le relazioni erotiche, gli amori; tutte queste entità hanno natura di “beni” perché, pur essendo modi d’essere del soggetto, non sono né qualità innate né semplici atti, ma in qualche modo degli “acquisti”, degli averi (quelli che gli antichi chiamavano precisamente héxeis o habitus), delle capitalizzazioni di serie di atti: ciò conferisce loro una quasi-sostanzialità per cui è possibile desiderarle, perseguirle attraverso l’azione come degli scopi, “possederle” e perderle.

Rinvio ad altri miei studi per un approfondimento dell’essenza di alcuni di questi beni, in particolare della sapienza, dell’amicizia, della fantasia, dell’eros, della realizzazione contemplativa (5). Qui devo limitarmi a sottolineare due aspetti: primo, sono beni altamente soddisfacenti; secondo, sono beni non esclusivi .

Che sono altamente soddisfacenti si vede con solare chiarezza appena ci si pensa: basta ripercorrerne con attenzione la lista e chiedersi cosa varrebbe la vita senza di loro. Se non ci si pensa, il motivo può essere la superficialità e la distrazione, ma certamente esiste anche un generalizzato complotto, una specie di avvolgente Truman show, che induce a lasciarsi abbacinare dai beni dell’individualismo possessivo. Onnipervasivi sistemi di passivizzazione persuadono ininterrottamente a desiderare la ricchezza e ogni singolo oggetto di acquisto e consumo, presentati con voce urlante o dolcissima come le chiavi della felicità; a prendere per incredibilmente importanti le dichiarazioni e le autoreferenziali manovre dei potenti; a idolatrare, quasi partecipi di un’ontologia superiore e para-divina, i famosi/visibili. Il non-ricco, il non-potente, il non-divo è un verme. Inesiste.

Il secondo aspetto (che mi riempie ogni volta di meraviglia, al pensare quanto è fatto bene il mondo) è che i beni del corpo, della mente e della relazione non sono solo altamente soddisfacenti in termini di fruizione individuale; sono anche non esclusivi sul piano sistemico-sociale. La mia salute, forza, abilità fisica nulla toglie a quella degli altri, la mia mente colta e contemplativa nulla toglie, anzi aggiunge alla sapienza altrui, il mio “volermi-bene-con” non solo non esclude l’altro ma lo include necessariamente, appartenendo al sottogruppo dei beni non esclusivi in quanto addirittura inclusivi.

5. Per uno spazio sociale “compatibile”

Facciamo il punto. I beni concupiti dall’individualista possessivo sono dotati, come abbiamo visto all’inizio, di reale valore, ma presentano carenze e pericoli tali da rendere il loro perseguimento egoico a oltranza sia antropologicamente sbagliato che altamente ingiusto e criminogeno in ambito interno e internazionale. Per fortuna esistono altri beni, i quali al tempo stesso realizzano l’essenza umana autentica (il pieno sviluppo della persona) e fondano uno spazio sociale “compatibile”: condizione logicamente necessaria, quest’ultima, perché lo sviluppo umano avvenga realmente “con todos y para el bien de todos” (Martí). In ogni prospettiva filosofica diversa da quella che sto cercando di presentare, il titolo del nostro convegno sarebbe una vuota espressione retorica, una di quelle formule inoppugnabili del buonismo lapalissiano/tautologico che nessuno può non sottoscrivere e che ognuno tira dalla propria parte. Perciò approfondisco ancora l’aspetto che ho chiamato sistemico-sociale.

Se il problema antropologico è quello dell’espansione illimitata (autentica) del soggetto, espansione che non è mai solitaria, ma che non può realizzarsi senza la comunicazione interpersonale, il problema politico, giuridico e, in senso più ampio, sociale è quello delle espansioni illimitate compatibili di tutti i soggetti. I regimi storici non sono che tentativi (molto spesso assai imperfetti) di risolvere questo problema dell’illimitatezza-compatibilità. Non sono pienamente soddisfacenti né espansioni compatibili limitate (moderazione, frustrazione, ugualitarismo repressivo), né espansioni illimitate incompatibili (complesso del superuomo, sfruttamento, oppressione dei deboli, conflitto, politica di potenza, guerra, criminalità collettiva o individuale, pubblica o privata).

Ora, sotto questo aspetto, l’individualismo possessivo ugualitario, “di sinistra”, commette l’errore di volere l’espansione illimitata di tutti i soggetti in uno spazio incompatibile. Perché la ricerca dei beni esclusivi fonda una spazialità sociale di esteriorità reciproca, come quella che si instaura tra le res extensae cartesiane: dal momento che ciò che è mio non può, nell’ambito dei beni esclusivi, essere tuo, là dove io sono non c’è spazio per te; lo spazio occupato da un soggetto è sottratto agli altri, il soggetto e i luoghi sono impenetrabili. In questo spazio, l’espansione di un soggetto limita tutti gli altri, si tratta, precisamente, di uno spazio incompatibile.

Per poter realizzare senza repressione l’espansione illimitata di soggetti individualisti possessivi, si dovrebbe disporre di uno spazio compatibile illimitato, vale a dire di una infinità di beni esclusivi. Ma i beni esclusivi sono per natura disponibili in quantità finita, ciò che li rende differenti dai desideri: potere e prestigio sono “comparativi” (avere potere, prestigio, significa averne più degli altri); renderli accessibili a volontà significherebbe di fatto abolirli. Quanto ai beni materiali che formano la ricchezza, sono da un lato soggetti all’esaurimento, dall’altro esposti senza difesa all’elasticità, all’estensibilità indefinita dei desideri. L’uomo, quale noi lo conosciamo, può desiderare non soltanto avere molti beni, ma anche averne più degli altri, e addirittura avere tutti i beni disponibili; può desiderare i beni unici, non moltiplicabili, per esempio questo castello precisamente in questa collocazione sulla riva di questo lago, questo pianeta, questo oggetto antico, questa donna. E anche qualora desideri beni moltiplicabili, incontrerà i limiti ontologici della materia, che fanno sì che ogni essere corporeo escluda tutti gli altri esseri corporei dallo spazio che egli occupa. Quale spazio potrà contenere i beni corporei che miliardi di uomini potranno concupire? L’abbiamo già detto: un’infinità di automobili significa zero strade, un’infinità di strade significa zero paesaggi, un’infinità di yachts significa zero mare…

La penuria dei beni esclusivi è dunque ineliminabile; nessun trionfo tecnico o sociale dell’uomo può costruire uno spazio incompatibile illimitato; la repressione del desiderio può assumere la forma della proprietà privata o del comunismo, essa disciplinerà con la forza, ma non sopprimerà alla base, il conflitto infelicitante e criminogeno tra individualisti possessivi.

Se dunque l’individualismo possessivo (comprese le sue razionalizzazioni universaliste e ugualitarie) non risolve il problema delle espansioni illimitate compatibili, diventa necessario cercare uno spazio sociale diverso da quello costituito dall’individualismo possessivo: uno spazio compatibile. Ed è precisamente quello fondato da un’antropologia orientata ai beni non esclusivi. La crescita di un soggetto in sapere, in virtù, in saggezza contemplativa non soltanto non esclude la crescita degli altri, ma normalmente la propizia; la formazione di un Noi abolisce, al suo interno, lo spazio cartesiano.

Questo punto è stato chiarito in maniera particolarmente efficace, a proposito del modus amoris, del modo d’ essere dell’amore, da L. Binswanger. Egli spiega come, mentre nel mondo che noi chiameremmo dell’individualismo possessivo vige la spazialità del «dove tu sei, là non c’è posto per me», nel mondo costituito dal modus amoris vige invece la spazialità del «dove tu sei, e solo dove tu sei, ivi c’è un luogo per me», luogo che è mia «patria» nello spazio altrimenti insignificante, inaccogliente, anzi escludente, del resto del mondo.

6. La sintesi e le difficoltà

La sintesi del discorso fin qui svolto è qualcosa come un dittico. Sulla prima anta del dittico sta il riconoscimento sia dei valori autentici veicolati dalla scienza-tecnica moderna, sia della parziale legittimità antropologica del desiderio culturalmente egemone di ricchezza, potere, fama, piacere. Sulla seconda anta del dittico sta, negativamente, la critica alle indebite assolutizzazioni della scienza-tecnica (scientismo tecnologico, riduzionismo) e di quel desiderio (individualismo possessivo); e sta, positivamente, la prospettazione di un altro desiderio, di altri beni, al tempo stesso essenziali per il pieno sviluppo della persona e tali da fondare uno spazio sociale illimitato compatibile.

Io uso chiamare pléroma la pienezza dell’essere, e pleromatico il modello dl sviluppo meglio adatto a tutelare e propiziare la pienezza dell’essere: umano e animale, culturale e naturale (6). Il pléroma è per me l’ideale normativo della politica, del diritto e dell’economia. Mi sembra che in base alle considerazioni fin qui svolte goda ormai di un alto grado di evidenza la tesi che senza il primato del desiderio dei beni non esclusivi sul desiderio (oggi egemone) dei beni esclusivi non può aversi diritto pleromatico, politica pleromatica, economia pleromatica. Né in ambito interno, né in ambito internazionale. L’armonia del mondo passa attraverso il primato del desiderio dei beni non esclusivi. I diritti dell’uomo, se devono essere i diritti di ogni uomo, non possono essere i diritti di un qualsiasi uomo. Non possono essere i diritti dell’uomo individualista possessivo.

Universalizzare i diritti dell’uomo nel senso di estenderli a tutti gli uomini (para todos) è impossibile, o rischia di essere catastrofico, se l’uomo in questione è l’individualista possessivo o anche solo il consumista. Non è proponibile, per esempio, che tutti gli uomini facciano uso dei loro diritti consumando petrolio e carne quanto uno statunitense. Il modello di sviluppo nel quale gli Stati Uniti sono “all’avanguardia” non è universalizzabile. Universalizzabile è, per necessità logica, solo un modello di sviluppo pleromatico, fondato sul desiderio prevalente dei beni non esclusivi.

Delineato il modello, si affollano subito le difficoltà. La prima, strutturale, è che l’acquisizione dei beni non esclusivi passa spesso, per non dire quasi sempre, attraverso l’uso di beni esclusivi. Non si può conseguire il saper-sciare (bene-habitus, non esclusivo) senza un paio di sci (bene materiale, esclusivo); la sapienza (bene non esclusivo) presuppone, oltre il lavoro su se stessi, dei libri, la frequentazione di un maestro (beni esclusivi); l’amicizia (bene inclusivo) si avvantaggia di qualche iniziativa, di qualche spesa (beni esclusivi). L’uomo è sempre e in tutto spirito e materia. Il modello pleromatico non prevede quindi l’ abbandono della ricerca e della produzione di beni materiali, ma la loro finalizzazione, per quanto possibile nel rispetto della libertà, al conseguimento dei beni esistenziali e relazionali non esclusivi.

Una seconda difficoltà è che purtroppo l’animo umano sa estendere l’esclusivismo possessivo anche a beni ontologicamente non esclusivi. Esiste anche l’attaccamento alla “mia” verità; la storia mostra che ci si è uccisi per questioni di idee quasi non meno che per questioni di pane o di terra. C’è contraddizione evidente tra la natura del bene e l’atteggiamento, il comportamento verso quel bene. Le intolleranze religiose sono l’esempio più eclatante, seguito dalle intolleranze ideologico-politiche.

Una terza difficoltà riguarda il metodo, cioè la politica culturale. Come rispettare la libertà nel persuadere al giusto desiderio? Ufficialmente le istituzioni della libertà politica ed economica sono la democrazia e il mercato. Il rischio è sostituirle d’imperio con una dittatura sofocratica del tipo della Repubblica di Platone o dei comunismi marxisti. D’altra parte si conoscono i limiti, in termini non solo di verità ma anche proprio di libertà, della democrazia e del mercato reali.

Una quarta difficoltà è che la predica del pléroma non può, decentemente, rivolgersi ai popoli poveri se prima non hanno fatto seriamente metánoia i popoli ricchi. Centinaia di milioni di uomini sono privi di quella quantità minima di beni materiali-esclusivi che è condizione necessaria di ogni sviluppo personale-esistenziale. Sono i ricchi, gli “evoluti”, gli avvantaggiati in termini di accaparramento di beni esclusivi, a doversi anzitutto convertire, avviando una consapevole “decrescita pleromatica”. Ma è chiaro che proprio loro opporranno una per definizione potentissima resistenza a ogni negoziazione del proprio modo di vita individualistico possessivo. Come attuare, nei loro confronti, il metodo della nonviolenza?

Una quinta difficoltà riguarda lo sfruttamento degli animali, divenuto ormai per il genere umano quasi una seconda natura. Sarebbe facile mostrare che il modello di sviluppo fondato sull’individualismo possessivo è anti-ecologico: non si può immaginare nulla di più devastante per l’ambiente naturale che un consumismo senza limiti esteso a tutti gli uomini del pianeta. Ma a questo profilo viene già dedicata, perfino dai poteri forti, una qualche attenzione. Qui vorrei osservare, complementarmente ma non secondariamente, che il modello di sviluppo fondato sull’individualismo possessivo genera una quantità spaventosa di sofferenza animale; i popoli più ricchi in beni esclusivi sono anche di gran lunga i più formidabili consumatori di carne e di ogni altra utilità proveniente dallo sfruttamento dei corpi animali. Nel testo ho limitato la questione dell’universalità al perimetro del mondo umano. Ma il modello oggetto di critica è ancora più manifestamente non universalizzabile se concepiamo l’universalità dei diritti in modo allargato, comprendendo tra i soggetti di diritti anche gli altri esseri senzienti. Estendere ugualitariamente a tutti gli uomini il diritto allo sfruttamento degli animali nella misura oggi riservata ai privilegiati configurerebbe, di fatto, un anti-animalismo “di sinistra” enormemente più pesante dell’antianimalismo elitario “di destra”. Se esistono diritti animali, l’universalizzazione dei diritti umani è esiziale per i non umani, dunque è una falsa universalizzazione; accresce a dismisura l’ingiustizia interspecifica, esattamente come l’estensione dell’individualismo possessivo dalle minoranze alle masse nei paesi ricchi ha appesantito l’ingiustizia internazionale. Reciprocamente, concepire l’universalità dei diritti come estesa a tutti i senzienti può avere effetti catastrofici sui privilegiati, analogamente a come li avrebbe la realizzazione della giustizia internazionale.

L’elenco delle difficoltà potrebbe continuare e farsi sempre più complesso, circostanziato e storico-concreto, fino a individuare almeno i maggiori tra i nemici del pléroma operanti sul piano geo-economico e geopolitico. Tutte le difficoltà, strutturali e contingenti, affondano radici tenacissime o nei limiti stessi della condizione umana o negli strati più bui, ma non per questo meno causali, dell’irrazionale. Non ci si può dunque illudere che esse si lascino facilmente risolvere o rimuovere. Io spero di avere almeno indicato in modo non puramente lapalissiano la direzione. Studiare, realizzare effettivi percorsi di libertà e nonviolenza verso il pléroma è per me il compito insieme affascinante, quasi-impossibile e ineludibile del prossimo futuro.

NOTE. Mi limito a citare I miei studi nei quali le idee qui esposte sono sviluppate più ampiamente. Ad (1): Corso di filosofia del diritto, Cedam, Padova 1981, cap.V; Riduzionismo e oltre, Cedam, Padova 2002. Ad (2): Voti religiosi e percezione del tempo, in Terre. Terra del Nulla, Terra degli uomini, Terra dell’Oltre, Vita e Pensiero, Milano 1989, p.425-447. Ad (3): Corso, citato, cap. V, spec. § 3.4. Ad (4): Modernité et criminogénèse, Vrin, Paris, 1989. Ad (5): ancora Corso, capitoli V e VI; Terre, citato, Parte III (“Terra dell’Oltre”); Nera Luce. Saggio su cattolicesimo e apofatismo, Le Lettere, Firenze 2001, spec. Parti II e III. Ad (6): Il meritevole di tutela, Giuffrè, Milano 1990, Introduzione; Riduzionismo, citato, cap. IV.

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