L’eterno ritorno della crisi mondiale

di Andrea Ferrario

Qui è possibile leggere la seconda parte: L’eterno ritorno della crisi mondiale (Parte 2)

Nonostante i tentativi di esorcizzarlo con enormi iniezioni di liquidità lo spettro della crisi mondiale continua a riemergere. In questa prima parte del nostro panorama della situazione economica a inizio 2016 affrontiamo il caos mondiale, la crisi cinese, la parabola discendente degli altri paesi emergenti e la stagnazione del Giappone.

Con l’inizio del 2016 lo spettro della crisi mondiale è tornato all’onore delle cronache dei grandi media. Borse in caduta libera, Cina in forte difficoltà, crollo dei prezzi del petrolio: all’improvviso tutto sembra andare storto, dopo che da un paio di anni non si faceva altro che parlare di uscita dal tunnel. In realtà la casa del capitalismo mondiale non ha mai smesso di essere popolata da temibili spettri da quando otto anni fa l’intero globo è sprofondato in una crisi mondiale senza precedenti. Ma in qualche modo le banche centrali e i governi di ogni contintente erano riusciti a tenerli a bada con riti esorcistici come il quantitative easing e le altre enormi iniezioni di liquidità: i fantasmi si facevano vedere solo nelle ore più buie della notte. Oggi però l’efficacia di questi esorcismi si sta logorando e gli spettri tornano a farsi vedere in pieno giorno. Rispetto all’ultima panoramica della situazione dell’economia mondiale che abbiamo pubblicato circa un anno fa (“Economia mondiale: allacciatevi le cinture!” Parte 1 e Parte 2) poco è cambiato nella sostanza dei fatti, ma molto è cambiato in termini di aggravamento di numerosi fattori e di sempre minore efficacia delle politiche espansive con le quali ci si illude di neutralizzarli. In questo aggiornamento partiamo da una rassegna di alcuni fattori di crisi che riguardano l’intera economia globale, come il debito e il calo dei volumi del commercio internazionale, per passare poi a un’analisi dettagliata di singoli casi, con particolare attenzione per quelli della Cina, della Russia, dei paesi emergenti e di quelli che in teoria “vanno bene” (Usa, Germania).

Il caos mondiale: bolla del debito, produttività in calo, commercio fermo, crollo delle materie prime

Il problema principale e più pericoloso a livello mondiale rimane a tutt’oggi quello del volume del debito. Non solo dopo lo scoppio della crisi del 2007-2008 non è stato fatto praticamente nulla per diminuirlo, ma le politiche monetarie espansionistiche (quantitative easing e altre forme di iniezione di liquidità) ne hanno ulteriormente gonfiato le dimensioni. Negli otto anni passati da allora le banche centrali hanno iniettato nel sistema economico mondiale oltre 15 trilioni di dollari, mantenendo allo stesso tempo a zero i tassi reali di riferimento per un periodo che non ha precedenti nella storia. Il risultato è che, come scriveva il quotidiano “Les Echos” il 18 gennaio, il debito è oggi lievitato fino a raggiungere il 230% del Pil mondiale, un livello più alto che nel 2007. Nonostante questa politica espansiva senza precedenti, in tutto il mondo l’economia continua a essere anemica o in crisi. Secondo dati riportati dallo stesso quotidiano, a livello globale la produttività del lavoro è passata da una crescita media annuale del 3,5% tra il 2003 e il 2007 a una di appena lo 0,9% nel 2011-2015. Il dato dei paesi industrializzati è ancora più basso: sono passati dall’1,3% allo 0,5%. Anche in termini di Pil il panorama è deprimente: i pochi paesi industrializzati che crescono lo fanno solo in misura limitata (2,4% gli Usa nel 2014, percentuale che risulterà sicuramente in calo nel 2015, 1,5% reale la Germania quest’anno – la crescita stimata in generale come sana per un paese sviluppato è una crescita continuativa superiore al 3%, mentre per i paesi cosiddetti in via di sviluppo la percentuale deve essere molto più alta per garantire una riproduzione stabile. Non bisogna farsi trarre in inganno dal Renzi di turno: una crescita intorno all’1-2% non è ripresa, ma stagnazione con tutti i problemi annessi come l’aumento della disoccupazione e/o del lavoro a infima retribuzione, i bassi redditi, l’accumulazione di debito non produttivo, la fragilità del sistema bancario e industriale ecc.). I rimanenti paesi industrializzati sono intorno alla crescita zero (resto dell’Ue, Giappone). Gliemergenti, che fino a un paio di anni fa venivano dati come il “futuro dell’economia globale” hanno dimezzato in media il loro ritmo di crescita, e alcuni dei paesi più importanti di questo gruppo (Russia, Brasile) sono in profondo rosso. Il trend al ribasso degli emergenti comporta molti più rischi oggi di quanto non ne comportasse una ventina di anni fa (per es. ai tempi della crisi asiatica della fine degli anni ’90), perché attualmente sono responsabili di una quota molto più ampia dell’economia mondiale, pari a circa il 40% se calcolata in dollari. Nel 2015 è stato inoltre registrato un deciso calo dei profitti delle imprese quasi ovunque, dagli Usa alla Cina, e la norma è che a un calo dei profitti segue uno degli investimenti e quindi dell’economia nel suo complesso. Il commercio internazionale è in forte calo a partire dal 2015, dopo la breve ripresa tra il 2010 e il 2014. Il Baltic Dry Index, l’indice rappresentativo dell’andamento del trasporto internazionale delle merci che con il suo crollo nel 2008 aveva “previsto” la crisi mondiale, ha toccato in queste settimane i punti più bassi di tutta la sua storia, ancora più bassi di quelli del 2008. La situazione nel settore del trasporto marittimo (responsabile di oltre il 90% dei flussi commerciali mondiali) è eloquente: secondo il “Financial Times” il prezzo del noleggio delle navi più grandi era di 20.000 dollari/giorno in agosto, oggi è crollato a 4.900 dollari/giorno, quando il livello minimo per il pareggio dei costi lo si raggiunge a 13.000 dollari/giorno. Sul crollo dei prezzi del petrolio (ma anche di tutte le altre materie prime) sono stati versati in queste settimane fiumi d’inchiostro. In questo caso si tratta di un fenomeno esemplificativo dello stato di disordine e di crisi in cui versa il sistema capitalista mondiale. Tutti i paesi produttori, non solo quelli dell’Opec, pompano la produzione a più non posso nonostante la domanda sia in forte frenata (il livello del calo della domanda è esemplificato dal dato di Barclays secondo cui a fine 2014 la Cina importava in media 500.000 barili al giorno, mentre oggi siamo a 300.000, un crollo di circa il 40%). L’obiettivo principale di questa sovraproduzione dei singoli paesi è quello di rubare quote di mercato agli altri produttori e di riempire le proprie casse finché è possibile perseguendo una politica di “frega il tuo vicino”. Gli aspetti geopolitici naturalmente contano anch’essi, così come lo sgonfiamento della speculazione finanziaria che aveva fino di recente contribuito ad alimentare la bolla dei prezzi, ma non sono in questo caso il fattore decisivo. Il risultato, come spesso è successo nella storia del capitalismo, è che pur di potere sopravvivere sul breve termine molti paesi si stanno tirando una dolorosa zappa sui piedi creando enormi squilibri a livello mondiale. Anche le svalutazioni delle monete nazionali sono un segno, come nel caso del calo dei prezzi del petrolio, che la politica disperata del “frega il tuo vicino” è imperante. Stanno applicando politiche che comportano una svalutazione della rispettiva moneta molte delle più grandi economie industrializzate (in primis il Giappone, ma anche l’Ue e la Cina) e il fenomeno riguarda anche la stragrande parte dei paesi emergenti (Russia, Turchia, Sudafrica, per citare solo alcuni dei casi più rilevanti). Inutile dire che si tratta di una guerra disordinata destinata a trascinare con sé al ribasso l’intera economia mondiale. Questo caos economico si replica a livello geopolitico nel Medio Oriente, dove l’affollarsi di attori in conflitto e il groviglio di precarie alleanze replicano la tattica disordinata e pericolosa del “frega il tuo vicino” che sta dilagando in campo economico.

Storicamente, da crisi economiche analoghe a quella di oggi si esce con enormi distruzioni di ricchezza, per ripartire poi con la crescita dei profitti che sola garantisce la riproduzione del sistema capitalista. I metodi per farlo sono essenzialmente tre: svalutazioni radicali degli attivi finanziari e materiali tramite crolli dei mercati e fallimenti in massa, ondata inflazionistica fino al limite dell’iperinflazione, o guerra di vasta portata come nel caso della Seconda guerra mondiale che ha chiuso il ciclo depressivo apertosi nel 1929. Le politiche monetarie espansive non fanno che spostare in là il momento in cui si sarà costretti ad adottare una di tali opzioni.

La bolla cinese sul punto di esplodere

Le difficoltà che la dirigenza cinese ha mostrato a tutto il mondo nel gestire durante gli ultimi mesi i vari problemi che si stanno accumulando nel paese non sono dovute a una sua maggiore incompetenza rispetto ai vertici politici di altri paesi, ma al fatto che è obiettivamente pressoché impossibile trovare una soluzione a tali problemi che non metta radicalmente in discussione il suo intero sistema, e con esso quello mondiale. Questo spiega in particolare anche perché Pechino pubblica dati statistici inaffidabili, pressoché sempre molto più rosei della realtà. Come ha ammesso un alto funzionario cinese citato dal “Financial Times”, i dati di Pechino, ivi compreso il Pil, vengono calcolati in base a non meglio specificati criteri propri, il che equivale a dire che possono essere prodotti secondo quanto conviene alle autorità. Sono ormai pochi a credere al dato ufficiale di una crescita del Pil pari al 6,9% nel 2015, e le stime prevalenti della crescita reale si situano intorno al 4%. Secondo dati citati da “Les Echos”, la crescita delle imprese estere che operano in Cina è attualmente compresa tra lo 0 e il 4%, a seconda del settore e dell’ubicazione geografica. La banca Natixis, basandosi su una serie di dati storici relativi al consumo di elettricità, ai volumi del commercio estero e a quelli del trasporto di merci, è giunta alla conclusione che la crescita reale del Pil cinese si aggira sul 2% annuo.

Anche la Cina, come il resto del mondo, ha un enorme problema di debito. L’insieme del debito pubblico e privato è pari a 28 trilioni di dollari ed è esploso dal 100% del Pil al momento dell’inizio della crisi fino al 250% di oggi (di cui 147% debito privato). Il ritmo di crescita del debito è in continua accelerazione: attualmente l’accumulazione di debito sta crescendo a un ritmo tre volte superiore a quello del Pil ufficiale. Negli ultimi tre anni il peso dei crediti deteriorati e non esigibili è raddoppiato e ammonta oggi a oltre $270 miliardi, stando sempre alle ottimistiche stime ufficiali. E ogni nuovo dollaro di credito genera una crescita del Pil sempre più bassa: mentre nel 2011 ogni dollaro di credito generava 59 centesimi di crescita del Pil, oggi ne genera solo 27, cioè meno della metà. Questo significa che per continuare a crescere l’economia cinese deve “drogarsi” sempre di più di debito. Analogo è un altro fenomeno citato da Bloomerg: le aziende cinesi, private e statali, investono sempre di più, ma i loro profitti sono in netto calo. La bassa inflazione (1,4% nel 2015) non consente di alleviare l’enorme onero del debito e nel fondamentale settore industriale i prezzi sono in deflazione ormai da quasi quattro anni: a dicembre hanno toccato quota -5,9%. L’industria si trova così a dovere ripagare i prestiti che si accumulano mentre i prezzi dei prodotti che vende calano. Un altro problema della Cina, comune in questo momento a tutti i paesi emergenti, è quello della fuga di capitali. Secondo le stime di Bloomberg nel 2015 il deflusso verso l’estero è stato pari alla cifra senza precedenti di $1 trilione, con un aumento del 700% rispetto all’anno precedente. Il paese sta inoltre registrando un calo delle esportazioni e delle importazioni. Il primo è segno del fatto che l’economia del resto del mondo è in decisa frenata e acquista meno prodotti della “fabbrica del mondo cinese”, il secondo è il segno di un drastico calo dell’attività industriale interna, non compensato da una crescita dei consumi. Nel 2015 il commercio estero cinese ha registrato nel suo complesso una contrazione del 7%: le esportazioni sono calate dell’1,8%, le importazioni del 7%. Il maggiore calo delle importazioni rispetto alle esportazioni ha consentito alla Cina di aumentare il saldo estero positivo di oltre il 56% fino a circa $550 miliardi, ma rimane il fatto che questi dati sono indice di una brusca frenata.

Le autorità di Pechino stanno reagendo a questo quadro in modo analogo a quello dei paesi occidentali, cioè conenormi iniezioni di liquidità in un sistema già oberato dal debito, anche se lo fa con modalità specifiche diverse. L’estate scorsa il governo ha iniettato circa $200 miliardi nella borsa di Shanghai nell’inutile tentativo di evitarne il crollo. Altri $500 miliardi sono stati spesi da allora fino a fine anno per arginare la svalutazione dello yuan. Durante il 2015 la PBOC (la banca nazionale cinese) ha inoltre effettuato ben sei tagli del suo tasso di riferimento portandolo al livello record del 4,35% e ha tagliato più volte l’indice delle riserve che le banche sono tenute a rispettare, consentendo loro di liberare così liquidità da immettere nel sistema economico. Poiché però la situazione è andata peggiorando, a inizio gennaio la PBOC ha cominciato a mettere in circolazione liquidità tramite prestiti a breve e medio termine, soluzione che in teoria le consentirebbe di invertire la rotta in tempi più brevi se necessario. In realtà l’esperienza passata insegna che iniezioni di “droga finanziaria” di questo tipo non producono altro che il bisogno di dosi ancora maggiori. E le dosi di partenza sono già altissime: nel solo mese di gennaio la PBOC ha iniettato nel sistema con questi metodi 1,8 trilioni di yuan, pari a circa $275 miliardi, con il pretesto ufficiale del fabbisogno di liquidità in vista del capodanno cinese, e prevede di iniettarne nelle prossime settimane altri $250 miliardi.

Il governo cinese deve fare fronte, oltre che a questi problemi, anche alla enorme e sempre più attiva classe operaia. Secondo i dati raccolti dal “China Labour Bulletin”, nel 2015 gli scioperi e le altre proteste dei lavoratori sono cresciuti di quasi il 100% rispetto all’anno precedente. Le proteste si fanno anche più dure, in alcuni casi con scontri tra lavoratori e forze speciali o sequestri di dirigenti d’impresa. Ciò è un riflesso tra le altre cose delle forti difficoltà dell’industria cinese. Le autorità non rilasciano dati sulle aziende chiuse, ma un indice della situazione viene fornito dal fatto che il numero di stabilimenti posseduti da imprese di Hong Kong nella regione industriale di Guangdong è calato di un terzo dal 2006, scrive il “Wall Street Journal”. Secondo dati della rivista economica cinese Caixin, l’occupazione nelle fabbriche è in calo da 25 mesi consecutivi. La situazione è particolarmente critica nella “rust-belt” del nord della Cina, dove sono concentrati i giganti statali del settore dell’estrazione o della lavorazione delle materie prime, una larga fetta dei quali opera in perdita per mantenere la pace sociale, colmando i buchi in bilancio con finanziamenti delle banche statali e alimentando così il debito improduttivo. In quest’area geografica, una delle più grandi acciaierie ha recentemente annunciato 11.000 licenziamenti, mentre uno dei giganti del settore del carbone ne ha annunciati addirittura 100.000. La disoccupazione ufficiale è a solo il 5,2%, ma come tutti i dati relativi all’economia cinese anche questo va interpretato alla luce della realtà. Due fattori contribuiscono a nascondere la disoccupazione reale. Il primo è il sistema di registrazione della residenza (lo “haiku”) che non consente ai 270 milioni di emigrati dalle campagne alle città di rimanere in queste ultime quando perdono il posto di lavoro. Chi rimane senza un’occupazione torna nelle campagne e non viene registrato come disoccupato. L’altro è quello del parziale assorbimento dei disoccupati da parte delle aziende statali di cui sopra, che in realtà non ne hanno bisogno e svolgono un ruolo analogo a quello della cassa integrazione: come abbiamo visto però adesso anche queste imprese stanno licenziando. Va infine citato anche il fenomeno molto diffuso del mancato versamento dello stipendio, che si può protrarre per mesi ed è uno dei motivi più frequenti degli scioperi. La Cina è poi uno dei paesi del mondo in cui le diseguaglianze socialisono più forti. Il coefficiente Gini, che misura tale fenomeno, è pari ufficialmente allo 0,49 (più l’indice è alto e più forti sono le diseguaglianze – secondo la Banca Mondiale un indice superiore allo 0,4 è segno di una forte diseguaglianza), uno dei più alti del mondo. Per un raffronto, quello degli Usa è dello 0,41 e quello della Germania dello 0,3. Tuttavia, secondo uno studio citato dal Financial Times e condotto su 15.000 nuclei familiari in 15 province diverse l’indice Gini reale è dello 0,61.

I fattori descritti qui sopra indicano chiaramente che il sistema economico cinese si trova in situazione di profonda crisi. Sia le autorità di Pechino che molti osservatori occidentali minimizzano la situazione affermando che non vi è da preoccuparsi perché da una parte il rallentamento dell’economia al 6,9% (ma come abbiamo visto il dato non è sufficientemente attendibile) è solo il segno di una sua ristrutturazione che porterà nel breve tempo a un aumento del ruolo dei servizi e dei consumi interni rispetto a quello della produzione industriale, mentre dall’altra Pechino dispone di trilioni di riserve in valuta estera che le consentono di fare fronte a situazioni di crisi anche molto grave. In entrambi i casi si tratta di pie illusioni. La Cina rimane un paese la cui economia è gonfiata da un livello di investimenti senza pari (sono responsabili del 50% del Pil) e con un livello di consumi estremamente basso che non ha analoghi nelle altre economie industrializzate: è nettamente calato rispetto al 45% circa del periodo del 1990-2000 ed è fermo da tempo intorno al 38% nonostante la crescita degli stipendi in alcuni settori. Anche se un processo del genere fosse stato avviato, e non vi sono segni sufficienti per dirlo, prima di avere cambiamenti sensibili ci vorrebbero comunque di sicuro alcuni decenni, ma la situazione di crisi profonda del sistema non consente praticamente spazi di manovra per una trasformazione di questo tipo. Le autorità cinesi hanno alimentato queste illusioni affermando che secondo le loro statistiche (sempre tutte da verificare) nel 2015 il settore dei servizi ha superato per la prima volta il 50% del Pil, mentre quello industriale è sceso a poco più del 40%. Se anche fosse vero, va precisato che questo dato sarebbe comunque una conseguenza del fatto che la produzione industriale è in brusco rallentamento, mentre il settore dei servizi è rimasto nella sostanza fermo (+0,5% anno su anno), e non di un’accelerazione positiva dei servizi. Inoltre il volume del settore dei servizi è strettamente legato a quello della pericolosa bolla in corso: la sola speculazione immobiliare è responsabile del 23% del settore dei servizi, sul quale incide enormemente anche il settore finanziario. La tenuta dei servizi rispetto alla frenata della produzione industriale è fondamentalmente un effetto dell’insana bolla finanziaria: non è un caso che una crescita dei servizi tripla rispetto a quella media di tutto il 2015 la si sia registrata nel primo trimestre dell’anno, quando ancora non era scoppiata la bolla della borsa. Sempre secondo i dati ufficiali i consumi sarebbero stati responsabili dei due terzi della crescita nel 2015, ma il “Financial Times” precisa che il dato non va considerato reale, perché le statistiche cinesi, a differenza degli standard internazionali, includono nella categoria dei consumi anche molte spese statali. Del 51% dell’economia che le autorità attribuiscono ai “consumi” solo il 38% consiste in spesa dei consumatori.

Per quanto riguarda invece le riserve in valuta estera, attualmente sono attestate a $3,3 trilioni. Rispetto al picco del giugno 2014, quando erano a quasi $4 trilioni, sono calate di 700 miliardi e il 2015, durante il quale sono diminuite di $500 miliardi, è stato il primo anno dal 1992 in cui è stato registrato un loro calo. Se si conta poi che nel 2015 il saldo estero positivo è stato di oltre $500 miliardi, vuol dire che il governo in un solo anno ha attinto da tali riserve $1 trilione all’unico scopo di cercare di rintuzzare la crisi, peraltro con scarsi risultati. Il 2016 è cominciato con ulteriore forte calo delle riserve cinesi, diminuite di quasi $100 miliardi nel solo mese di gennaio, sempre stando ai dati ufficiali. Questi dati sono già di per se stessi sufficienti a ridimensionare drasticamente la portata delle riserve, apparentamente senzafine.Ma non è tutto. Come sottolinea Bloomberg, una larga parte delle riserve non può essere toccata perché deve coprire il debito legato alle importazioni denominate in valuta estera. Un’altra parte delle riserve non è liquida, mentre un’altra ancora potrebbe avere subito deterioramenti non contabilizzati. Secondo le stime dell’agenzia, circa $2,8 trilioni non sono quindi utilizzabili e anche se questa stima dovesse essere esagerata, è chiaro che le riserve non consentono alle autorità cinesi un largo spazio di manovra in caso di una crisi grave.

Il pantano del Giappone, la parabola discendente dei paesi emergenti

Accanto al caso della Cina bisogna prendere in considerazione anche quello del Giappone, terza economia del mondo (quarta se si considera l’Ue come un’economia unica), e quello dei “paesi emergenti” che secondo gli ideologi del capitalismo mondiale avrebbero dovuto costituire il traino dell’economia mondiale. In Giappone, paese che non riesce a uscire dal pantano della stagnazione ormai da un quarto di secolo, sta per compiere il suo terzo anno di vita l’enorme programma di quantitative easing (QE) lanciato dal premier Shinzo Abe nel 2013: in termini di volumi di moneta il QE giapponese è pari a quasi il doppio di quello Usa. Nonostante questo enorme bazooka i risultati ottenuti sono pressoché nulli. In particolare, il programma puntava da una parte a una svalutazione dello yen per battere la concorrenza sui mercati esteri (con una politica del “frega il tuo vicino” praticata da moltissimi altri paesi) e dall’altra a sconfiggere il costante pericolo di una ricaduta nella deflazione con l’obiettivo ultimo di aumentare i consumi privati. Lo yen da allora si è svalutato di oltre un terzo rispetto al dollaro, ma le esportazioni invece di aumentare sono fortemente calate (-8% anno su anno a dicembre, con un drastico peggioramento in particolare negli ultimi tre mesi del 2015), mentre la popolazione, come scrive “Les Echos”, “mal pagata, soffre del rincaro continuo dei prodotti importati e il suo potere di acquisto è stato intaccato. La svalutazione dello yen alla fine ha avuto l’effetto principale di trasferire ricchezza dai nuclei familiari agli esportatori, che non ne avevano bisogno. La crescita, che è risultata nulla nel 2014, dovrebbe raggiungere lo 0,6% nel 2015”. L’inflazione rimane ferma quasi a zero (intorno allo 0,5%). Intanto l’enorme debito giapponese continua a lievitare: quello statale è pari a circa il 240% del Pil, mentre quello totale, comprensivo del debito e privato, è pari addirittura al 450%.

paesi emergenti sono passati nel giro di breve tempo dal ruolo di star dell’economia mondiale, a quello di fattore ad alto rischio per la sua stabilità. Come scrive il “Sole 24 Ore”, tra il 2009 e il 2014 le principali economie emergenti avevano registrato una crescita media del 48%, rispetto a quella di appena il 6% messa a segno dai Paesi del G20. Questa crescita è stata alimentata soprattutto dall’enorme lievitazione del debito, una conseguenza anche dei massicci programmi di quantitative easing (QE) varati a livello mondiale, che hanno messo in circolazione capitali alla ricerca di rendite più alte di quelle ottenibili nelle principali economie sviluppate. Tra il 2004 e il 2014 il debito delle aziende dei paesi emergenti è lievitato da $4 trilioni a $18 trilioni. La fine del QE della Federal Reserve e l’avvio da parte della stessa di una politica di innalzamento dei tassi, unitamente al forte rallentamento cinese e al crollo delle materie prime nonché del commercio internazionale, stanno rendendo insostenibile questo enorme debito, che le aziende dei paesi emergenti troveranno sempre più difficile rimborsare, rischiando così di innescare una catena di default. Le banche estere hanno prestato $3,6 trilioni alle società dei paesi emergenti e nel 2015 i default in questi ultimi hanno già toccato il livello più alto degli ultimi dieci anni. Nel corso dell’anno, inoltre, si è registrata una massiccia fuga di capitali da questi paesi, pari a oltre $730 miliardi. I flussi di capitali che entrano nei paesi emergenti sono passati da una media annua di $1.200 miliardi tra il 2010 e il 2014 ai $230 miliardi nel 2015. L’enorme leva del debito sarà più difficile da sostenere per gli emergenti anche a causa del fatto che le loro economie sono in forte frenata: la crescita del Pil degli emergenti si è più che dimezzata, passando dal 7,2% del 2010 al 3,4% del 2014, tasso che a giudicare dagli ultimi dati è destinato a calare ulteriormente. Il panorama delle economie emergenti è deprimente anche se si prendono in considerazione i casi dei singoli paesi, oltre a quello già esaminato della Cina. In Asia, economie relativamente ricche e un tempo solide come quelle di Taiwan e la Corea del Sud sono molto in difficoltà: Taiwan è ufficialmente entrata in recessione, mentre la Corea del Sud è in forte frenata perché la sua economia, incentrata sulle esportazioni, sta risentendo fortemente delle difficoltà della Cina, della Russia e di altri paesi. La crescita del Sudafrica sta toccando livelli minimi, in netta frenata a +1,4% con previsioni di crescita intorno allo zero nel 2016, mentre la sua produzione industriale è già in recessione. La sua moneta, il rand, si è fortemente svalutata, arrivando a perdere il 9% in un solo giorno nel corso del mese di gennaio. Il governo ultracorrotto e oligarchico dell’African National Congress appare sempre più incapace di gestire la situazione caotica. A differenza di altri paesi, in compenso, il Sudafrica ha dimostrato negli ultimi anni di disporre di una marcia in più che gli offre prospettive alternative per il futuro: una forte, agguerrita e organizzata classe lavoratrice, alla quale si affiancano una società civile e un movimento studentesco molto attivi e organizzati. Il Brasile, fino a poco tempo fa in netta crescita e considerato una delle grandi speranze dell’economia mondiale, è in profonda recessione già dal 2014 e quest’anno il suo Pil si è contratto del 3,7%, mentre per l’anno prossimo si prevede ancora un segno meno di entità simile. La sua moneta, il real, si è fortemente svalutata, l’inflazione è a due cifre e la disoccupazione in crescita. Come se non bastasse, la sua produzione industriale ha registrato nel 2015 un calo di oltre l’8%. Insieme alla Russia, oggi il Brasile è uno dei “buchi neri” dell’economia mondiale. In America Latina va poi citato il caso del Venezuela, che il calo del petrolio ha messo definitivamente in ginocchio e che appare prossimo a un default sui $10 miliardi di debito da rimborsare quest’anno. La Turchia di Erdogan cresce ancora intorno al 3,5%, un tasso comunque molto più basso del 9% medio nel 2010-2011 e di un tasso compreso tra il 6% e il 9,5% prima della crisi del 2008. La sua moneta si è svalutata del 20% rispetto al dollaro nel giro di un anno, ma nonostante questo le esportazioni sono in calo (anche perché il principale mercato della Turchia, l’Ue, è in crisi) e l’economia del paese deve ancora smaltire un’enorme bolla (per es. nel settore immobiliare) dovuta ai grandi flussi in entrata di capitali speculativi alla ricerca di alte rendite, flussi che sicuramente andranno a sgonfiarsi in breve tempo visto il contesto economico mondiale. Le imprese turche sono le più indebitate del mondo dopo quelle cinesi e il loro debito in rapporto al Pil è raddoppiato negli ultimi dieci anni. Il fatto che il debito sia in larghissima parte denominato in dollari le rende particolarmente vulnerabili al rischio del cambio. L’unico paese emergente a godere apparentemente di buona salute è l’India. Alcune caratteristiche di questo paese, come l’assenza di un verso sistema industriale, la fatiscenza delle infrastrutture, la povertà della popolazione e la sua scarsa qualificazione, lo rendono comunque inadatto a fare anche solo in parte da traino al resto dell’economia globale. Il governo del neoliberale Narendra Modi, giunto al potere nel 2014, aveva annunciato un ampio programma di riforme che stenta a concretizzarsi a causa delle difficoltà politiche incontrate. Modi aveva promesso tra l’altro di portare la quota dell’industria manifatturiera dal 16% al 25% del Pil. Peccato però che nel 2015 la produzione industriale abbia registrato una contrazione e che l’indice dell’attività manifatturiera sia di segno negativo. La crescita ufficiale del Pil è molto alta (+7,4%), ma, come constata il “Financial Times”, “la maggior parte degl indicatori economici e imprenditoriali contraddicono nettamente [i dati ufficiali, con un sensibile peggioramento] nell’ultimo trimestre dell’anno. Il volume delle merci trasportate via terra e via mare è stagnante, la produzione di cemento è debole, i progetti di investimento a lungo termine sono in declino, la fiducia delle imprese e dei consumatori è in calo”. Come nel caso della Cina, le statistiche ufficiali sono infatti poco affidabili, soprattuto da quando le autorità hanno cambiato i metodi di calcolo un anno fa. Secondo l’opinione prevalente degli osservatori la crescita è sopravvalutata di almeno 1-2 punti percentuali. L’apparente alta crescita indiana va poi letta alla luce del fatto che per creare i posti di lavoro di cui il paese necessita al fine di assorbire senza squilibri la nuova forza-lavoro che giunge sul mercato ogni anno l’India avrebbe bisogno in realtà di un tasso di crescita (reale, non gonfiato dalle statistiche) superiore al 9%.

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