L’anima sociale della rivoluzione egiziana ed i suoi limiti

Keda Reda

Egitto: Da dove ripartire?

Questa domanda oggi come oggi nell’Egitto di al-Sisi nessuno vuole sentire. I giovani sono fisiologicamente e mentalmente stanchi; si sentono traditi e abbandonati, durante questi cinque anni, da tutti gli attori politicamente rilevanti nella scena politica egiziana. Traditi da chi questa protesta di massa non se l’augurava poiché avrebbe messo a repentaglio i propri affari costruiti su una stretta e leale collaborazione con il mostro militare dall’epoca di Sadat. Di chi si parla? Si parla dei partiti politici laici tornati o costituiti dopo l’apertura politica (in arabo, Infitah) voluta dal presidente Sadat negli anni settanta. Non si tratta di un attacco diretto e senza eccezioni a chi, per quella piccola apertura politica, ha subìto torture arresti e intimidazioni, ma di una critica di come essi, col passare del tempo, si siano trasformati da opposizione ai regimi –Sadat e Mubarak- a leggittimatori degli stessi e impedendo, volutamente, un rinnovamento politico al loro interno che gli avrebbe permesso di creare piattaforme politiche alternative al regime. Quindi, rispondendo alla domanda posta in apertura, bisognerebbe ripartire da qui? Probabilmente si, ma, vista la realtà e il suo sviluppo, si potrebbe ripartire da dove essi non sono stati più considerati dalla massa espressione del dissenso in Egitto.

Erano gli anni duemila quando le prime manifestazioni in solidarietà con l’Intifada palestinese, con il consenso del regime per dimostrare quanto democratico fosse l’Egitto, iniziarono ad occupare le strade del Cairo e delle principali città egiziane. Studenti, attivisti e alcuni partiti politici occupavano le principali piazze del Cairo, Alessandria, Suez e altri centri per manifestare la loro solidarietà ai fratelli palestinesi e gridare la loro rabbia contro l’ennesimo sopruso israeliano. Le proteste andarono avanti ma pian piano si incominciarono ad udire lievi, ma coraggiosi, slogan contro il regime di Mubarak. Nessuno si sarebbe immaginato che undici anni dopo, seppur con metodi e spazi organizzativi diversi, quegli slogan, gridati quasi sottovoce, si sarebbero trasformati in una delle più spettacolari proteste che l’Egitto contemporaneo ricordi. Il 25 gennaio 2011 ha segnato per sempre il destino di quei giovani ed evidenziando, ad oggi, tutte le crepe che quello stesso movimento ha avuto durante e dopo i diciassette giorni di Piazza Tahrir. Le crepe, in questo caso, sono le dirette conseguenze del malfunzionamento dell’azione politica, un’azione che non ha saputo legare con l’intero universo politico e sociale egiziano dovute soprattutto dall’inesperienza politica e dal mancato appoggio della politica formale. Una classe politica –i partiti storici- che non ha saputo cogliere e interpretare le rivendicazioni giovanili e che non ha saputo cogliere le innovazioni che i ‘giovani rivoluzionari’ avevano portato sulla scena politica. Strozzati dalle forze reazionarie (militari e Fratelli Musulmani), questi nuovi attori sociali, soprattutto dopo le vicende che hanno accompagnato il periodo di transizione post-Mubarak, si sono ritrovati a combattere da soli contro forze a loro avverse (militari e forze conservatrici laiche in primis) fino a rinchiudersi di nuovo in quelle piattaforme digitali che avevano dato forza e organizzazione per le proteste delle cosiddette primavere arabe. Tutto perso? Non proprio. Considerare un fallimento ciò che si è creato in questi ultimi dieci anni di protesta e azione politica significherebbe andare contro la realtà storica e politica. Tuttavia ciò non ci vieta di analizzare ciò che non ha funzionato durante questo delicato momento.

Se i social network sono stati, prima durante e dopo la protesta popolare del 25 gennaio, il mezzo con cui si sono serviti i movimenti del duemila, essi, allo stesso tempo, non sono stati efficaci per una diffusione di massa di quegli ideali ‘rivoluzionari’ ai quali ambivano. Il problema si pone nel 2006 ed è proprio questo il punto da dove si potrebbe ripartire per un’analisi critica dell’azione politica dei movimenti politici dell’Egitto. Questa data è molto importante in quanto per la prima volta, durante il regime Mubarak, i movimenti giovanili vengono a contatto con il movimento operaio (soprattutto quello dell’industria tessile e manifatturiera di Mahalla al-Kubra) che, a loro malgrado, non riusciranno ad avere un approccio costruttivo con l’azione di protesta dei lavoratori. Cosa non ha funzionato? Il movimento operaio era forse un gruppo elitario e impenetrabile in quel periodo, oppure era solo mancanza di fiducia nei confronti di questi giovani? La risposta a queste domande, senza nessuna forzatura e prendendo le giuste misure, viene data da Gramsci nei suoi quaderni dal carcere; un’opera ampia che in questi ultimi tempi la si sta utilizzando per descrivere e analizzare le cosiddette ‘Primavere Arabe’ e i suoi protagonisti (per il caso egiziano si veda, tra gli altri, Gramsci on Tahrir di Brecht De Smet, 2016). In questa breve analisi dei movimenti giovanili dei primi anni 2000 cercheremo di riportare quello che Gramsci chiama nel suo primo quaderno, sezione 43, “combinazioni successive” o “formule”. È in questo concetto che si racchiude la mancata ‘fusione’ tra questi ultimi e gli scioperi operai dell’Egitto del 2006 e, successivamente, nella diffusione delle rivendicazioni del 25 gennaio. Per combinazioni successive o formule, Gramsci intende i mezzi con i quali nuove tendenze e nuovi modi di pensare non vengono trasmessi da un soggetto all’altro secondo esplosioni, ma secondo passaggi intermedi che introducono il nuovo pensiero senza urtare improvvisamente gli equilibri presenti. Ciò che è diventato ferravecchio in città è ancora utensile in provincia (Gramsci, Q1, sez.43). Da questo piccolo appunto teorico si racchiude la distanza tra i movimenti giovanili e il movimento dei lavoratori egiziani nel periodo suddetto. Molto si è scritto su i movimenti giovanili egiziani e molte volte si è enfatizzato il loro essere ‘giovani laureati disoccupati’ o semplici studenti universitari, ma quasi mai si è analizzato come questo dettaglio abbia influito sulla diffusione e sull’organizzazione della loro azione politica. Innovatori all’interno del nuovo ambiente politico, grazie all’uso delle nuove tecnologie digitali, nel momento in cui si sono trovati a maneggiare gli ‘utensili’ usati in realtà socio politiche semi-sconosciute, essi hanno subìto la prima grande sconfitta. La scena che si venne a creare era molto simile a quella degli studenti universitari all’esterno della fabbrica di Lulù nel film “La classe operaia va in paradiso”. Studenti che seppur coscienti delle condizioni degli operai venivano da quest’ultimi cacciati via o scherniti. Il motivo? A detta di Gramsci il motivo risiede nell’ “esplosione delle passioni” politiche accumulate in un periodo di trasformazioni tecniche alle quali non corrispondono nuove forme di organizzazione giuridica con le sostituzioni di nuove forme di cultura alle vecchie (Gramsci Q1 Sez. 43). Se i membri dei movimenti giovanili erano, in gran parte, capaci di utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione sbandierando l’ideale della laicità dello stato e il rispetto dei diritti umani; l’operaio, a sua volta, era rimasto al classico sms con il telefono cellulare e alle ‘semplici’ rivendicazioni salariali (sarebbe bene ricordare che l’utilizzo di Facebook, o di internet in generale, nell’Egitto dei primi anni duemila si aggirava intorno al 9% della popolazione). Gli slogan dei giovani manifestanti, seppur legittimi, non si sposavano con le forti rivendicazioni operaie e molto spesso la minima organizzazione all’interno dei movimenti cercava sempre più, come successe nel 2008, di far prevalere le loro rivendicazioni sociali su quelle degli operai che in quegli anni non godevano di una organizzazione forte e efficiente. Tuttavia, la differenza generazionale ha giocato un ruolo di estrema importanza all’interno delle lotte sociali nell’Egitto del 2000, e è da qui che si deve ricercare il nuovo punto di partenza per una nuova lotta. La protesta popolare del 25 gennaio, nonostante fosse stata tradita sin dalle sue prime battute, essa ha cambiato di fatto le coscienze dei giovani e dei lavoratori egiziani. Non siamo di fronte a una nuova depoliticizzazione, come avvenne nei primi anni novanta, ma siamo di fronte alla fase dormiente di un percorso iniziato quasi dieci anni fa e alla quale la protesta del 2011 ha posto le basi per una nuova fase di lotta. Le elezioni parlamentari e presidenziali del 2011 e 2012 hanno dimostrato, oltre allo strapotere degli islamisti, la scarsa popolarità dei gruppi politici vicini ai movimenti giovanili nelle zone periferiche delle grandi città. Anche in questo caso il problema è strettamente legato ai metodi dell’azione politica e alle differenze e alle difficoltà che, i movimenti giovanili prima e i gruppi politici rappresentanti poi, hanno incontrato nel presentare le loro idee nelle province all’esterno delle zone urbane. Ciò che è mancato era una differenziazione dell’azione politica. Gli stessi slogan usati nelle grandi città e le stesse tematiche, come laicità e diritti umani, non penetravano facilmente all’interno di determinate zone. Le loro rivendicazioni erano troppo distanti da determinate realtà sociali (un po’ come la critica che Gramsci fa al Ferrari e alla sua analisi sul risorgimento italiano) e le rivendicazioni che i giovani portavano avanti in alcune zone del paese risultavano proposte che non rispecchiavano le problematicità, ad esempio, dei contadini dell’Alto Egitto. Ciò che non si è saputo differenziare, non erano tanto i temi sociali, quanto i metodi di diffusione degli stessi. In una società conservatrice come quella egiziana, parlare di laicità piuttosto che di diritti umani (temi assai cari alla società civile egiziana ancor prima delle proteste del 2000) era un compito assai difficile se non si poneva a posteriori uno studio metodologico differenziato a seconda delle zone di influenza.

Cosa è mancato? Innanzitutto è mancata una struttura politica in grado di poter gestire l’intera attività dell’azione politica. Le piattaforme digitali per quanto potessero essere una zona franca per gli apparati censoriali del regime, essi non erano sufficienti per creare un’ ‘egemonia’ all’interno delle classi proletarie egiziane. L’attività politica non poteva limitarsi a semplici manifestazioni che, tranne nei casi di Mahalla al-Kubra del 2006 e delle manifestazioni del 2011 e 2012, contavano poche decine di manifestanti. Tuttavia l’assenza di un partito laico di massa, considerando le difficoltà di azione in un contesto autoritario, nella storia dell’Egitto contemporaneo ha sempre fatto fatica ad emergere al contrario di altre realtà. Un esempio è quello del movimento dei fratelli musulmani. Nonostante le dure campagne repressive, essi hanno avuto la capacità di creare varie reti di propaganda e di penetrazione all’interno della società spesso subendo le più dure critiche e violenze da parte del regime (violenze che hanno portato molte volte ad un atteggiamento di vittimismo da parte della fratellanza). Al contrario la componente laica ha scelto la via dell’appoggio incondizionato al regime e ciò, oltre ad essere stata la causa del loro fallimento alle elezioni del 2012, ha determinato il blocco totale dell’azione politica. Un blocco che ha condizionato tutti i vari attori sociali egiziani partendo dai lavoratori fino ad arrivare ai movimenti giovanili. I partiti storici della sinistra come i liberali del partito Wafd storicamente secolari, alla luce di quanto emerge, sono molto simili al Partito d’Azione tanto criticato da Gramsci nei Quaderni. In questo caso, tuttavia, invece da essere ingoiato dai moderati -nel caso egiziano potrebbero corrispondere per posizione politica al PND di Mubarak- essi erano stretti nella morsa islamisti-regime. Dalla cooperazione, come già detto, con il regime, per accaparrarsi un’ulteriore manciata di seggi elettorali finivano per snaturare addirittura i principi della loro laicità – basta dare uno sguardo al Partito Unionista Progressista Egiziano che mette all’interno del suo programma il secondo articolo della costituzione egiziana il quale richiama, seppur simbolicamente, alla Shari‘a. Lo scontro generazionale è stato il primo vero ostacolo che la ‘rivoluzione’ del 25 gennaio ha dovuto affrontare e forse è stato proprio questo che ha fatto sì che la controrivoluzione ha travolto di fatto tutte le ambizioni e aspirazioni giovanili. L’immobilismo laico ha impedito, soprattutto, la fioritura di una nuova generazione, all’interno dei partiti stessi, che facesse da collante con quei nuovi attori sociali protagonisti della Thawra (Rivoluzione) in modo da trovare una giusta mediazione che evitasse “l’esplosione delle passioni” politiche che avrebbe poi causato un netto distacco tra giovani e gli altri attori sociali. La protesta del 2011 pur non avendo portato i risultati sperati, ha fatto sì che queste criticità si azzerassero e molti sono stati i tentativi, in parte riusciti, per riavvicinare -per quanto il regime permetta- i giovani alla politica e all’azione. Molti dei partiti politici, laici e non, hanno avviato una riforma interna stabilendo delle quote giovanili all’interno dei direttivi; qualcosa, seppur minimo, si è mosso, come si è mosso per i movimenti dei lavoratori (costituzione di sindacati indipendenti e numerosi scioperi in tutto il paese) il tragitto è lungo e forse ancor più ricco di ostacoli rispetto al passato, ma ciò che è passato non si può cancellare ma, sicuramente, si può migliorare.

Leggi anche:

IL MOVIMENTO OPERAIO EGIZIANO TRA SCIOPERI E DIVISIONI

ROSA LUXEMBURG A PIAZZA TAHRIR

Facebook

YouTube