Rosa Luxemburg a Piazza Tahrir

Duccio Sorbini

La caduta di Hosni Mubarak – alla soglia del trentesimo ininterrotto anno alla guida dell’Egitto – così come le masse radunate in piazza Tahrir sono diventati i simboli di quelle diffuse e vaste rivolte che hanno attraversato tutta la regione mediorientale a partire dai fatti tunisini del dicembre 2010. Queste “rivoluzioni politiche con un’anima sociale” – per dirla à la Marx – sono state rappresentate dalla retorica dominante come eventi unici: ovvero, spazialmente ridotti ad uno specifico luogo (Tahrir, nel caso egiziano) e temporalmente circoscritti a poche settimane (con riferimento allo stesso caso, gli ormai famosi 18 giorni di interrotte proteste che hanno portato alla destituzione di Mubarak). Non sorprendentemente, processi rivoluzionari sviluppatisi per almeno una decade sono quindi diventati oggetto di farsesche rappresentazioni, che generalmente hanno così recitato: al termine di un lunghissimo letargo, giovani con un alto grado di istruzione, ma limitate possibilità di affermazione in società dominate dalla corruzione e dal familismo, hanno saputo, attraverso un brillante uso delle moderne tecnologie, mettere in scacco gli opprimenti apparati repressivi e sono così riusciti a gridare pubblicamente il loro impegno a favore di un contesto democratico, decretando in ultima istanza la caduta degli odiati dittatori. Questo trend che ha portato a vuote ed insignificanti espressioni – “la rivoluzione di Facebook”, tanto per citare quella probabilmente più assurda – è stato però combattuto da quanti hanno allargato temporalmente e spazialmente i propri orizzonti ed assunto un’ottica di classe come bussola per comprendere questi grandiosi eventi. Al riguardo, particolarmente interessante è stato il tentativo proposto da alcuni studiosi marxisti di ri-leggere i fatti egiziani a partire dal The Mass Strike di Rosa Luxemburg. Il testo, datato 1906, ripercorre le vicende della fallita rivoluzione russa dell’anno precedente e permette di affrontare due problemi che oggi come ieri si pongono di stringente attualità: esiste una separazione tra domande ‘economiche’ e ‘politiche’? quale compito hanno le forze rivoluzionarie? Per prima cosa però proviamo a delineare cosa significhi the mass strike.

The mass strike, traducibile come “lo sciopero di massa”, ma più spesso mal-tradotto in italiano come “lo sciopero generale”, è una specifica attività all’interno del più vasto processo rivoluzionario. Come reso chiaro dalla Luxemburg “lo sciopero di massa non crea la rivoluzione, ma la rivoluzione produce lo sciopero di massa” (p. 147). Entrambi sono però il portato di uno specifico momento storico, tanto che “è impossibile propagare lo sciopero di massa come un astratto mezzo di lotta così come è impossibile propagare la rivoluzione” (p. 118). In tal senso, “lo sciopero di massa non può essere chiamato a piacere” (p. 147), ma al contrario è “il movimento della massa proletaria, la forma eccezionale della lotta proletaria nella rivoluzione” (p. 141). Questo, inoltre, al pari della rivoluzione, non è “un atto, un’azione isolata. Lo sciopero di massa è piuttosto l’indicazione, l’idea guida dell’intero periodo della lotta di classe durata per anni, forse per decenni” (p. 141-2). E così, come la rivoluzione russa del 1905 evolve a partire dalla coronazione di Nicola II nel maggio del 1896 quando i lavoratori di San Pietroburgo protestarono per i tre giorni di vacanza obbligatoria e non retribuita che ricevettero per poter celebrare il nuovo zar, la rivoluzione egiziana del 2011 prende le mosse dalla seconda Intifada palestinese del 2000 e dal conseguente movimento di solidarietà che si sviluppa in Egitto. Entrambe poi abbracciano e prendono forza nel campo economico: lo sciopero generale del comparto tessile a San Pietroburgo nel 1897 ed i ripetuti e straordinari scioperi a Baku, nel primo caso, le impressionati mobilitazioni di Mahalla al-Kubra del 2006-7 ed il crescente fermento nel tradizionalmente pacificato settore privato, nel secondo. Quanto detto ci conduce proprio ad affrontare la prima delle due tematiche già ricordate: in quale rapporto stanno tra di loro le battaglie ‘economiche’ e quelle ‘politiche’?

Una diffusa tendenza, presente anche nel campo marxista, induce a leggere le battaglie ‘economiche’ come maggiormente settoriali e riformistiche rispetto a quelle ‘politiche’. In tal senso, esisterebbe una precisa “gerarchia della lotta” secondo la quale solamente le seconde sarebbero in grado di mettere in seria difficoltà il potere. Rosa Luxemburg rigetta con forza questa compartimentalizzazione della lotta, bollandola come un preciso stratagemma utilizzato dal capitale per depotenziare la sfida al suo dominio. Questo non solamente perché in regimi autoritari come quello zarista ed egiziano “nei quali ogni forma ed espressione del movimento operaio è proibita, nei quali il più docile sciopero è un crimine, deve seguire logicamente che ogni battaglia economica diviene uno scontro politico” (p. 150), ma anche perché “la separazione della lotta politica ed economica e la reciproca indipendenza non è altro che il prodotto artificiale del periodo parlamentare” (p. 169). Al contrario, lo sciopero di massa “passa impercettibilmente dal campo economico a quello politico, così che è quasi impossibile disegnare una linea divisoria tra di loro”. Non casualmente, gli anni duemila in Egitto segnano non solo l’affermazione di un movimento liberal-democratico composto da giovani con estrazione urbana e provenienti dalle classi medie, ma anche la più lunga e violenta ondata di scioperi, manifestazioni, e proteste nelle fabbriche e sui luoghi di lavoro dai lontani anni quaranta. I due movimenti, anche se procedono quasi sempre su binari separati, si ibridano e giungono ad una reciproca emulazione che diviene evidente nelle modalità di lotta che vengono scelte. In tal senso “la battaglia economica è il portatore da un centro politico all’altro; la contesa politica è la periodica fertilizzazione del suolo per la battaglia economica. Causa ed effetto qui continuamente cambiano posto […] e la loro unità è precisamente lo sciopero di massa. Sciopero di massa che si realizza in Egitto negli ormai famosi diciotto giorni (25 gennaio – 11 febbraio 2011) quando tutti i settori della società egiziana si scagliano contro il regime di Hosni Mubarak, in una protesta generalizzata che forza i militari a prendere una decisione sorprendente: sacrificare il Faraone per preservare il sistema. Su tale decisione un peso decisivo lo hanno certamente avuto le mobilitazioni operaie che a partire dal 6 febbraio – quando le fabbriche furono riaperte dopo una lunga preventiva chiusura voluta dal governo il 28 gennaio precedente – oltre 300,000 lavoratori parteciparono in una straordinaria ondata di scioperi senza precedenti che ha paralizzato il paese in numerosi settori chiave.

Giunti a questo punto, può sorgere un dubbio: ma se “lo sciopero di massa non è artificialmente fatto, non è deciso a caso, non è propagato, ma è un fenomeno storico” (p. 117), quale sarebbe il compito delle forze rivoluzionarie? Certamente, le “rivoluzioni non permettono a nessuno di giocare il ruolo del maestro con loro” (p. 148), ma la direzione dello sciopero di massa diviene “il dovere della social-democrazia e dei suoi organi direttivi” (p. 149). Soprattutto però, l’impossibilità di propagare seguendo la propria volontà individuale una propizia situazione rivoluzionaria non può portare ad aspettarla fatalisticamente e “con le braccia conserte” (p. 161). Al contrario, compito delle forze rivoluzionarie – quelle socialdemocratiche come era costume indicarle ad inizio novecento – è “affrettare lo sviluppo delle cose e tentare di accelerare gli eventi” (p. 161). Quanto detto induce proprio a riflettere sul duplice fallimento della rivoluzione russa ed egiziana. La prima non riuscì neanche a raggiungere un cambiamento di regime politico, con lo zar che rimase alla guida del paese. La seconda, invece, non è andata oltre la destituzione di Mubarak ed è stata sconfitta dalle forze contro-rivoluzionarie: la Fratellanza Musulmana prima e l’esercito poi. Ma tutto questo ci condurrebbe lontano su sentieri che l’opera della Luxemburg ha solo parzialmente toccato.

Tutte le citazioni provengono da:

Luxemburg R. (2008) [1906], The Essential Rosa Luxemburg: Reform or Revolution & The Mass Strike, Chicago: Haymarket Books

Per approfondire le vicende egiziane e le ragioni della sconfitta della rivoluzione:

Abdelrahman M. (2015), Egypt’s Long Revolution: Protest Movements and Uprisings, New York: Routledge

Alexander A., M. Bassiouny (2014), Bread, Freedom, and Social Justice: Workers and the Egyptian Revolution, London: Zed Books Limited

Beinin J. (2016), Workers and Thieves: Labor Movements and Popular Uprisings in Tunisia and Egypt, Stanford: Stanford University Press

Per un viaggio nell’Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione:

Acconcia G. (2014), Egitto: Democrazia Militare, Roma: Exòrma Edizioni

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