Detto e non detto delle elezioni in Russia

Quanto proponiamo qui sono alcune considerazioni sulle recenti elezioni parlamentari in Russia, tenutesi lo scorso settembre. Come dimostra la dinamica di protesta che si è accesa in questi ultimi giorni in Marocco, dopo che elezioni poco partecipate avevano apparentemente premiato forze moderate e protettrici dell’ordine esistente, processo elettorale e dinamica sociale possono anche stridere sonoramente. Cosa che sembra essere tanto più probabile quanto più bassa è la partecipazione alle elezioni. Insomma, sotto un quasi totale consenso allo zar di turno, potrebbe esserci molto più di quanto le percentuali ‘bulgare’ sembrano dirci.

Giovanni Savino

1. I votanti: il 47,8%, stando ai dati della Commissione elettorale centrale. Nel 2011 – il 60,2%. Non un trionfo: a Mosca l’affluenza è stata del 28,7%, a Pietroburgo la più bassa in tutta la Federazione russa, il 25,2%. In Crimea, regione al centro degli avvenimenti del 2014 – il 42,3%, sotto la media nazionale.

2. Il sistema: Russia Unita ottiene quasi il 75% dei seggi, per via del sistema misto (una metà dei candidati si eleggeva in collegi uninominali), e il 54,2% nel proporzionale. Si tratta di 26,2 milioni di voti, rispetto ai 32,3 del 2011: più di 6 milioni di elettori persi. Se è vero che subito Putin e Medvedev sono apparsi negli uffici di Russia Unita, a congratularsi per la vittoria, i festeggiamenti sono stati del tutto assenti, e i toni non sono stati all’insegna del trionfalismo. Il calo di consensi è sintomatico di una debolezza intrinseca al partito di Putin, più una camera di compensazione di vari interessi che un vero e proprio organismo politico. L’elezione di una Duma ancora più docile non fotografa quindi una realtà molto più complessa, dove la crisi economica comincia a sviluppare crepe nella “stabilità” putiniana.

3. Opposizioni parlamentari: malissimo il Kprf, che, inspiegabilmente (ehm), non tuona in campagna elettorale contro la crisi e le diseguaglianze. Il partito di Zyuganov perde più di 6 milioni di voti, passando da 12, 5 a 6,4, e riducendo la propria presenza nella Duma a 42 deputati, rispetto ai 92 mandati ottenuti nel 2011. Il successo del Kprf all’epoca fu possibile sì grazie alla campagna “votate tutti ma non Russia Unita”, ma anche a un maggiore attivismo del partito, che in questa campagna elettorale è stato abbastanza fermo, tranne eccezioni a livello locale. La lista “Comunisti di Russia” ha ottenuto il 2,27%, e subito ci son state accuse che la presenza del simbolo di questo piccolo partito abbia rubato consensi al Kprf: ma tutto ciò da solo non può spiegare il crollo dei risultati, sommando i risultati si otterrebbe il 15,61%, molto meno del 19,19% del 2011. Tra i partiti dell’opposizione “di sistema” l’unico a  guadagnare è quello di Zhirinovsky, per due ragioni essenziali: la prima è il voto di “protesta”, dato all’ormai storico buffone della Duma, la seconda è la crescita di una retorica nazionalista che ha favorito chi, come Zhirinovsky, ha sempre puntato all’utilizzo di sparate xenofobe e razziste per avere spazio.

4. A queste elezioni si sono presentati due partiti d’orientamento liberale, Yabloko e Parnas. Il primo ha una lunga tradizione di presenza agli appuntamenti elettorali, con una certa presenza in alcune realtà, come Mosca e San Pietroburgo; invece Parnas è creatura di Mikhail Kasyanov, già primo ministro dal 2001 al 2004 e poi escluso dal governo e da quel momento passato nei ranghi dell’antiputinismo. Yabloko ha mantenuto una propria identità, con però elementi di stanchezza e di difficoltà dovuti all’ormai eterno leader Grigory Yavlinsky, autore dei programmi di privatizzazione nel 1990. Quel che poteva sembrare, a un certo tipo d’elettorato, un partito del rinnovamento, ormai non lo è più nemmeno a livello d’immagine, nonostante il 9,6% ottenuto a Pietroburgo. Parnas invece è andato male anche dove avrebbe potuto rappresentare una novità, per via delle candidature scelte: fatto fuori Kasyanov (noto come Misha 2%, per una sua certa predisposizione a prendere mazzette) come candidato, si è puntato su figure troppo estreme anche per il liberale medio russo, come Andrei Zubov, noto storico e attivista ortodosso e omofobo, collaboratore de La Nuova Europa, giornale di CL attivo in Russia, e Vyacheslav Maltsev, ultranazionalista basato a Saratov. Il fallimento (l’ennesimo) delle opposizioni “non di sistema” (Yabloko – 1,99%, Parnas – 0,73%) non è dovuto solo alla “cattiveria” di Putin (d’altronde, aspettarsi clemenza e regali dal Cremlino è cosa alquanto buffa) ma all’incapacità di leggere la fase: di fronte alla crisi Yabloko propone di ridiscutere dell’ordinamento post-1917, e Parnas, per bocca di Zubov, di ridare le proprietà espropriate nel 1918. In una città come Mosca dove nel 2014 son stati licenziati 7000 tra paramedici e medici, dove son state accorpate scuole e dove ci son problemi con i salari agli insegnanti, giusto di ciò che si è espropriato nel ’18 si deve discutere. Persino il progetto curato dall’Amministrazione del Presidente (organo simile al Dipartimento di Stato americano), chiamato pomposamente Partito della Crescita (Partiia Rosta), e che vedeva al proprio interno vari liberali di “regime”, è fallito miseramente, con il 1,28% dei consensi, il che spiega anche come un’opzione del tipo apertamente neoliberista non riscuota grandi successi.

5. Ha vinto Putin? Certo, formalmente sì, ma il 54,7% di Russia Unita è, calcolando gli astenuti, il 23,1% di tutto l’elettorato russo. L’utilizzo della passività di massa è uno dei fattori chiave del successo del Cremlino, ma ora comincia a essere un problema: queste elezioni hanno mostrato l’incapacità di riuscire a mobilitare anche il proprio elettorato. Che cosa succederà? Ovviamente, difficile dirlo. Di certo, non è una vittoria per nessuno: il 19 settembre, a urne chiuse e risultati ufficiali, è stata pubblicata una ricerca su come, dall’inizio della crisi, sia caduto il potere d’acquisto dei salari per la settima volta in 22 mesi.  Il peggioramento delle condizioni di vita sono evidenti, ed incominciano ad avvertirsi anche nei grandi centri urbani. La stabilità appare sempre meno stabile.

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