Il teatrino degli orrori

Ci risiamo.

Città infestate di gigantografie di facce poco simpatiche, radio, tv e giornali che a gettito continuo inondano la popolazione di promesse, analisi, previsioni e quant’altro. Uno stalking non richiesto, ma “necessario”, un po’ come i sacrifici.

La campagna elettorale, ovvero il volto molesto della “democrazia”.

I cittadini, nel frattempo, passano il tempo libero davanti allo schermo a fare il tifo per lo schieramento amico o, se ancora indecisi, ad elucubrare su chi sia il “male minore”, il “meno peggio” a cui assegnare il proprio voto. Perché si sa, nella nostra società “libera”, nella nostra “democrazia”, benché le elezioni siano diffusamente sentite come il momento più importante della vita politica del paese, quasi nessuno crede che votando si possa REALMENTE cambiare, ma, al massimo, indicare chi meglio può gestire dei cambiamenti (in peggio) assunti come inevitabili. Un sentimento comune di rassegnazione e impotenza, condito se va bene da una certa indignazione verso gli aspetti più truci e grotteschi del sistema politico ed economico.

Indignarsi, lo ripetiamo da tempo, non è sufficiente; votare, invece, è completamente inutile. La democrazia rappresentativa e liberale è sempre stata un inganno, tuttavia, un tempo, i partiti svolgevano effettivamente un ruolo di redistribuzione di ricchezza, attraverso una presenza sul territorio e la creazione di fitte reti clientelari. In questi tempi di crisi invece, in cui non restano nemmeno le briciole per gli strati sociali non d’elite, anche il ceto medio, storico serbatoio di voti per il centro-sinistra, si ritrova oggettivamente senza rappresentanza, condannato ad un progressivo impoverimento dalle politiche imposte dall’Unione Europea e dalla BCE, assunte a pieno proprio dall’ (ex?) area politica di riferimento. È il karma cari compagni del PD…

Il “blocco europeista” si presenta così come il primo candidato alla maggioranza parlamentare. Con questa definizione intendiamo sia la “sinistra” di Bersani e Vendola che il centro montiano. Due alleanze con programmi pressoché identici, al punto che riesce difficile comprendere perché si presentino come alternativi: semplice gioco delle parti? O un nuovo interventismo della Chiesa, felice di ritrovare nel nuovo centro dei servi fedeli?

Resta il fatto che le differenze tra l’Agenda Monti e l’Agenda Bersani sono impalpabili, entrambe caratterizzate dalle parole d’ordine “Austerità” e “Crescita”.

Austerità è una bella parola, fa pensare a qualcosa di sobrio, frugale, in discontinuità con l’epoca farsesca delle veline e del bunga bunga. Per capire cosa significhi in realtà, bisogna scavare il significato di un altro termine oscuro ai più: “Fiscal compact”. Trattasi di un accordo approvato dal parlamento il 19 di luglio scorso in cui l’Italia garantisce all’UE il rispetto di determinati parametri in materia di debito statale. Leggiamo cosa dice a proposito il sito dell’enciclopedia Treccani:

Fiscal Compact ha un bel suono, per quello che non dà assolutamente l’impressione di contenere la bomba che contiene. Compact, in questa espressione da addetti ai lavori dell’economia, dediti in questo periodo soprattutto alle politiche di contenimento delle spese e alla compressione dei bilanci, è sostantivo e significa ‘accordo, patto’: roba seria, insomma. Nella testa di ognuno, però, galleggia l’idea, più simpatica, del ‘compatto’, del ‘piccolo, succoso concentrato’ di suoni, immagini o parole: compact, termine usato assolutamente e sostantivato, “compatta” in sé locuzioni più ampie e specificative in cui compact è attributo, come compact disc (o disk, in sigla cd; è nella lingua italiana dal 1983), oppure compact stereo (l’impianto stereofonico per l’auto, dotato di lettore cd; in italiano dal 1998), oppure ancora compact car (utilitaria di media cilindrata piccola ma dotata, in virtù di concentrazione di materia in spazi ridotti, di tutte le virtù tecnologiche delle auto più grandi di pari cilindrata; dal 1992). [estratto dalla voce sul Fiscal Compact del sito treccani.it] http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/parole/delleconomia/Fiscal_compact.html

La “bomba” che contiene il Fiscal Compact consiste in tagli di 50 miliardi annui della spesa pubblica, ovvero un processo di impoverimento di massa ai danni delle fasce sociali medie e basse.

Ma veniamo alla “crescita”. Monti e Bersani sanno perfettamente che l’Austerità da sola sarebbe dannosa anche per loro (e per gli interessi che rappresentano), in quanto è necessario rilanciare l’economia per garantire alti profitti. Escludendo a priori l’immissione di capitale da parte dello Stato, il loro obiettivo è quello di “attrarre investimenti”. Come fare? Creando un “clima favorevole”, cioè eliminando tutti quegli ostacoli, piccoli e grandi, che potrebbero dare fastidio alle multinazionali e ai fondi di investimento, il che significa insistere con l’attacco ai residui diritti dei lavoratori.

“Austerità” e “Crescita”, che tradotto significa impoverimento e ricatto. Questo è il paese responsabile di Monti, questa è l’Italia giusta di Bersani. Il resto son chiacchiere.

Sulla scena politica non mancano partiti che contestano in modo più o meno veemente quest’impostazione. Sono quelli che Repubblica definisce sdegnosamente come “populisti”: un calderone in cui stanno la lista Ingroia, il Movimento 5 Selle, frazioni dell’estrema destra e, a corrente alterna, anche PdL e Lega nord. Nonostante queste forze politiche derivino da storie completamente diverse tra loro, si può notare, in tutte, un leit-motiv comune: la difesa della “sovranità nazionale” e il ritorno alla “sovranità monetaria” (uscita dall’euro e ritorno alla lira).

C’è chi lo urla a gran voce come il Movimento 5 stelle e i fascisti (non stupiamoci dell’apertura di Grillo a Casapound, le convergenze ci sono), chi è più timido come l’ex pm “anti-mafia”, che si limita a dire che il fiscal compact sarebbe da ridiscutere, e chi, come Berlusconi, si parla e si smentisce continuamente.

Il sovranismo è di gran moda in tempi di integrazione europea, ma non è certo una novità. Cosa significa infatti “difendere gli interessi nazionali”? Storicamente significa difendere gli interessi dei potentati nazionali, contro la concorrenza di quelli esteri, ricordiamoci che anche Mussolini difese “l’interesse nazionale” dalle “demoplutocrazie” con le nazionalizzazioni. La polemica tra europeisti e sovranisti si configura quindi come uno scontro interpadronale o, se preferite, come una guerra tra ricchi. Il che di per sé non sarebbe neanche un male, che si scannino pure. Il problema si pone quando anche i “poveri” si arruolano in una delle due fazioni, finendo per fare il gioco delle classi dominanti.

Un altro motivo ricorrente (il più demenziale) di questa campagna elettorale è quello del “Rinnovamento”. Da Renzi che vuole “rottamare” la vecchia guardia del PD, a Grillo che pretende facce nuove e fedine penali pulite, passando per Monti che, “salito” in politica, si rivolge nuovamente verso il basso candidando la “società civile” (espressione semplicemente priva di senso), tutti vogliono “cambiare”, dando una passata di vernice alla ormai logora facciata della “casta”. C’è pure chi non si accontenta del “Rinnovamento”, ma invoca addirittura la “Rivoluzione”, beninteso, di tipo “Civile”… Tutti poi fanno a gara a chi candida più donne, più giovani o più extracomunitari, perché bisogna dare un segnale, la politica è di tutti…

In questo quadro desolante la nostra intenzione non è tanto quella di fare una campagna per l’astensione, quanto quella di ricondurre il momento del voto alla sua reale importanza: nessuna. Votare non serve, astenersi neppure. Del resto se votare cambiasse qualcosa, l’avrebbero già reso illegale.

Redazione CortocircuitO

Tratto dal numero 9 e mezzo del nostro cartaceo, consultabile online qui sotto e scaricabile in Pdf cliccando QUI

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