Dalla Somalia a Firenze: storia di un migrante

R. è un ragazzo, di cui non faremo il nome, che fa parte dell’occupazione dello stabile di via Slataper, una viuzza nei pressi di piazza Tanucci. Questo è un baraccone dismesso, la cui proprietà non vede di buon occhio gli uomini e le donne,  per lo più etiopi, eritrei e somali, che vi abitano dentro, poiché  rappresentano l’ostacolo per una facile e celere monetizzazione dell’ennesima speculazione edilizia. Noi abbiamo raccolto una storia,  una delle tante nascoste nelle strade della nostra città, che testimonia come le regole di una società capitalistica colpiscano prima in terre lontane, e poi sotto i nostri occhi miopi. Le assurde leggi che regolamentano la concessione dell’asilo politico, rappresentano un esempio lampante di come la “civile” Europa riesca a discriminare anche all’interno dei propri confini, riconoscendo, di fatto, solo alcuni dei diritti e doveri che esercitano i cittadini europei.

Africa

Per vent’anni non abbiamo avuto un governo e questo è stato causa di un lungo periodo di instabilità, in cui molti ragazzi somali come me hanno passato momenti non facili. Io sono nato a Mogadiscio, nel 1979, 33 anni fa. Non esisteva una forza armata organizzata, ma tutti erano armati e agivano al soldo di qualcuno, compresi i giornalisti. Sono scappato, non posso dire perché, la prima volta nel 1994. In Sud Arabia non mi hanno mai riconosciuto lo status di rifugiato politico, rimandandomi diverse volte indietro con la scusa che mi mancava qualche documento. Avevo il problema di trovare un paese che non mi rispedisse in Somalia. Nel 2006 lasciai definitivamente il mio paese natale e iniziai un lungo viaggio che dopo più di un anno mi ha visto arrivare in Italia, nell’aprile del 2007. Il paese era in mano all’Unione delle Corti Islamiche, che rendevano difficile ogni spostamento, soprattutto all’estero, applicando un rigoroso controllo a chiunque destasse il minimo sospetto di voler emigrare all’estero. Comunque riuscii a lasciare Mogadiscio per raggiungere Hargeisa, una città che era riuscita a sottrarsi dal controllo delle Corti Islamiche. Lì controlli non ce ne erano, e ciò mi consentì di raggiungere l’Etiopia. Ma mi arrestarono subito, perché ero senza alcun documento. Fortunatamente avevo un po’ di soldi messi da parte, e se  hai soldi, in Africa, riesci a risolvere diversi problemi. Pagai delle persone che per 600 dollari mi nascosero e mi portarono fino ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia. Lì decisi di raggiungere il Sudan. Il viaggio da Addis Abeba fino al confine mi costò ancora di più, non ricordo esattamente quanto. Di nuovo mi si ripresentò il problema dei documenti, che mi erano necessari per varcare il confine. Ma con i soldi in Africa si risolve tutto, e spendendo tutto quello che avevo sono arrivato fino al capoluogo sudanese. Qui rimasi bloccato per diverso tempo, senza un soldo e senza la minima idea di come fare. Ogni persona, tuttavia, di fronte a un problema, si trova faccia a faccia con esso e dà tutto se stesso per trovare il modo di risolverlo, finché non ci riesce.  Dopo un po’ infatti cominciai a capire alcune cose: chi trasportava immigrati dall’Etiopia alla Libia aveva bisogno di uno che conoscesse l’arabo e che facesse da tramite con gli altri ragazzi che volevano arrivare in Libia. Mi offrii come volontario, ma loro in cambio avrebbero dovuto trasportarmi gratis. Così partii alla volta della Libia. Il viaggio fu un vero incubo: durò nove giorni, in mezzo al deserto, senza né cibo né acqua, che non mi potevo comprare come fecero altri, essendo rimasto completamente al verde. Viaggiammo su un Land Cruiser che aveva due posti davanti e un grosso vano dietro adibito al trasporto merci. Noi eravamo 32, e questo basta a capire che eravamo effettivamente  stivati come degli oggetti: qualcuno accovacciato al centro, qualcun altro spiaccicato verso la parete dell’automobile, ma almeno con il conforto di poter appoggiare la schiena, altri ancora sul tetto della macchina. A chi ci trasportava non importava di fermarsi per farci sgranchire le gambe o per rifocillarsi, né di come ci eravamo sistemati e né, in definitiva, di farci arrivare vivi a destinazione. Il loro unico interesse erano i soldi che percepivano.

Arrivati in Libia ci arrestarono subito. Gli autisti vennero rilasciati dopo qualche giorno, mentre noi ci lasciarono lì per diverso tempo. Ancora una volta ero bloccato, ma come sempre quando c’è un problema che ti si pone davanti, devi concentrarti su questo senza perderti in mille pensieri. Cominciai allora ad osservare tutti gli spostamenti e lo spazio che mi circondava: per un po’ stetti attento ai movimenti delle guardie, osservai  i loro orari, i loro ruoli. Rimasi simpatico ad alcuni di loro, e questo mi consentì di ottenere un posto in cucina, cosa che in carcere ti permette di spezzare la noiosa routine quotidiana e dimenticare per alcune ore le buie celle dove ci avevano sistemato.  La cucina dava su un giardino, e un grosso albero si ergeva di fronte a una finestra, non c’erano sbarre che la proteggevano: dovevo solo capire quando sarebbe stato il momento opportuno. Non ricordo quanto stetti aggrappato su quell’albero, saranno state diverse ore, certo che a me sembrò un’eternità.

Una volta evaso, cominciai una vita da latitante. Non potevo farmi vedere troppo di giorno, e anche di notte dovevo stare attento a non passare per  le strade maggiormente controllate dalla polizia. Ora dovevo organizzare la traversata in mare. Trovai altre persone che come me volevano arrivare in Italia.

Verso l’Italia

Quando vai in mare, devi trovare le persone giuste. Quindi ci chiedevamo: chi è il più intelligente di noi? Abbiamo innanzitutto trovato un meccanico. Non potevamo pagare quelli che voi in Italia chiamate “gli scafisti” anche perché spesso si prendono i soldi e ti lasciano lì. Allora ci siamo organizzati da soli per creare “un equipaggio” abbastanza decente per riuscire ad arrivare dall’altra parte.  Un meccanico serviva nel caso ci fosse stato bisogno di aggiustare il motore della barca. In mezzo al mare è un problema! Come fai a cambiare le candele in mezzo alle onde? Una cosa è un viaggio nel deserto in macchina, tutt’altra in mezzo al mare in barca! Abbiamo trovato delle persone che conoscevano il mare, dal punto di vista geografico, che sapevano usare una bussola , persone più adulte di noi che avevano studiato in Somalia, tutta gente che in un modo o nell’altro aveva studiato e che conosceva il percorso.  Infatti non eravamo solo ragazzi giovani, a scappare dal nostro paese, ma anche persone più anziane che erano riuscite a farsi una cultura prima dello scoppio della guerra.  Il problema ora era: chi la guida la barca? Non c’era nessuno tra di noi che sapesse guidare, quindi avremmo scelto la persona più calma tra noi. Calma di carattere, ci sembrava una cosa essenziale per chi dovesse stare a quel posto. C’era tanta gente che già conoscevamo dalla Somalia, abbiamo ritrovato alcuni amici qui a Tripoli. Non dovevamo cercare altre persone, perché sarebbe costato tutto di più. All’inizio eravamo in cinque. Io mi occupavo delle cose da mangiare e dell’acqua.. C’era tanta acqua in Libia, ma non c’era spazio per portarla sulla barca. Il cibo non era un problema, puoi vivere per tre giorni senza mangiare, ma senza acqua.. e quella del mare ti uccide.

Siamo partiti all’ultima notte, poco prima dell’alba, verso le quattro del mattino, per eludere i controlli. In quelle ore è più facile passare inosservati, essendo le guardie molto più stanche e meno attente,  tanto che spesso non riescono a stare sveglie.  Come le guardie, anche le persone che devono imbarcarsi erano stanche, ma qui non c’è posto per la stanchezza: o resti sveglio e abbastanza lucido per non commettere errori,  o muori. Rischiavamo la vita: sulla barca eravamo una trentina e bevevamo tutti mezzo bicchiere d’acqua ogni sei ore, così come il cibo, tutto era razionato ovviamente. Dopo due giorni e due notti di viaggio, con un mare fortunatamente calmo, riuscimmo ad arrivare a destinazione, tutti quanti.  Finalmente siamo entrati in Italia, a Siracusa.

Italia

Ogni posto ha i suoi problemi, e così anche qui in Italia. Qui fa freddo, se non hai un posto dove dormire la notte sei messo male sul serio, in Sudan male male che andasse c’erano 25°, potevi dormire per strada, ma qui no. Abbiamo conosciuto altri rifugiati politici come noi, abbiamo ritrovato tanti amici che come noi avevano intrapreso questo viaggio. E poi l’Italia è grande. Mi sono chiesto dove potessi andare. Dovevo chiedere asilo politico. Mi diedero un biglietto per la Svezia, uno dei paesi europei in cui ti aiutano, ti danno un lavoro e ti permettono di studiare. Ma una volta lì mi hanno fatto rientrare in Italia. La maggior parte delle persone che conoscevo hanno chiesto di andare in altri paesi europei, ma alla fine sono sempre qui. Tanti dei ragazzi che abitano qui sono stati in altri paesi. Ma pare ci sia una legge per la quale tu devi restare nel primo paese in cui sei arrivato, quindi nel nostro caso l’Italia (ciò è sancito dal  regolamento Dublino II, adottato dall’Ue nel 2003. Questo, con la scusa di non favorire il cosiddetto asylum shopping, si pone come obiettivo di impedire agli immigrati di richiedere asilo a più stati membri, di scegliere quindi dove potersi rifare una vita ndr). Tornato, parlavo solo un po’ di inglese. Ero a Como, una piccola città dove non c’è niente e nessuno che potesse aiutarmi. Come facevo senza lingua e senza un tetto? Per la casa ero andato a chiedere al Comune, dove mi avevano proposto una soluzione da lì a nove mesi, visto che c’era una lista molto lunga di richiedenti casa. E dove sarei stato in quei nove mesi? Avrei trovato un’altra soluzione da solo. Sono andato a Milano, una città grande e piena di altri stranieri experienced a cui avrei potuto chiedere qualche informazione. Sei treni per arrivare! Da Como a Milano! Senza soldi per comprare il biglietto, scendevo tutte le volte che vedevo il controllore.  Lì mi hanno detto di andare a Firenze, prendendo un altro treno.. l’Eurostar Milano-Firenze. Non sapevo neppure dove lo prendevo il treno, qual era il binario, non sapevo niente, allora mi hanno accompagnato fino alla stazione e sono salito sul treno giusto. Ovviamente sempre senza biglietto, ho fatto tutto il viaggio chiuso nel bagno. Soldi non ne avevo, ma tanto qui non si rischia niente, anche se va male, alle brutte vai in carcere per un mese, è poco tempo, e subito dopo esci. Comunque, il controllore mi vide: “Biglietto?” “Non ce l’ho” “Soldi per la multa?” “Neanche” Allora mi portò nell’ufficio della Polizia e lì mi perquisirono da capo a piedi per controllare che non avessi nulla per davvero. Nel caso avessero trovato qualcosa, si sarebbero preso tutto. Ma non era il mio caso. “Dove vai adesso?” “Non lo so”. Non lo sapevo nemmeno io dove andavo, figurati se potevo spiegarlo a loro. Ero senza documenti ancora, me li hanno dati solo 4 mesi fa, ma alla fine mi hanno lasciato andare a condizione di scendere alla prima fermata del treno, che per l’appunto era Santa Maria Novella.

Firenze

Scesi, e li vidi seguirmi con gli occhi finchè il treno non ripartì e loro con lui. Qui a Firenze pensavo di restarci giusto un po’ in attesa di trovare una soluzione alla mia vita. In Via del Palazzuolo ho conosciuto alcuni ragazzi, a cui ho subito chiesto dove avrei potuto trovare un posto per dormire, dopo settimane e settimane di viaggio ero esausto, e loro mi hanno consigliato di andare a sentire a uno stabile occupato in Viale Guidoni. Ero davvero troppo stanco per mettermi a scegliere un altro posto, allora andai lì, dove trovai dei vecchi amici tra l’altro. Era uno spazio molto diverso da questo qui (lo stabile di via Slataper ndr), non c’erano tante stanze divise ma un unico grande spazio, quindi c’era tanta confusione e non potevi lasciare le tue cose così perché rischiavi che qualcuno te le rubasse per rivenderle. Ma per il momento andava bene, mi bastava un posto per dormire, e l’avevo trovato. Per mangiare qui in Italia non ho mai avuto problemi,  esiste la Caritas. Ora dovevo trovare una scuola per imparare l’italiano, altrimenti non avrei mai potuto trovare lavoro, come mi era stato detto a Como. Ho trovato un corso a 30 euro in una scuola media, credo, vicino al Bar Puccini, accanto a Piazza Puccini, e ho imparato un po’ la vostra lingua. Non benissimo, ma insomma me la cavo. A questo punto pensavo di avere le carte in regola per cercare un lavoro. Serviva il corso di formazione. Ne ho fatti tre, uno per lavorare nella ristorazione, uno per diventare fornaio e uno per fare l’addetto alle saldature. Nessuno dei tre mi è servito per iniziare quel tipo di lavoro per cui avevo fatto il corso. Ora è da più di un anno che lavoro nell’agricoltura, con un contratto nuovo ogni tre mesi. Niente assicurazione e se non c’è lavoro non mi pagano. Lo stipendio più alto che mi hanno dato è stato di 494 euro, lo so che è basso, ma ho trovato solo questo in tutto questo tempo e non mi conviene lasciarlo, perché rischio di non trovare nient’altro. Sempre meglio di niente è. Ora sto qui, ho trentatré anni, ma ancora non so cosa farò nella mia vita. Spero di non restare per sempre in uno stabile occupato, c’è confusione, tanta gente, non si vive benissimo. Certo, meglio così che come in Somalia. Dove ho lasciato la mia famiglia, che non vedo dal 2005.

Lo stabile di via Slataper

La maggior parte di noi non ha un lavoro, se hai fortuna lo trovi, se non ne hai niente da fare. Le persone in genere fanno un mestiere, che sia medico o semplice lavoratore, e con questo riescono a pagarsi un affitto, ma per noi è impossibile solo pensare di potercilo stabile di via slataperpermettere una spesa di 800-900 euro al mese per una casa. Io sono qui, ma ho lasciato in Africa i miei due bambini, mia moglie, mio babbo e mia mamma, a cui mando ogni mese qualcosa. Poi non sempre, perché a volte devo scegliere se mangiare io o se mandare qualcosa a loro. Ora che sono in Italia non posso neppure cambiare paese per cercare di trovare qualcosa di meglio, all’estero non mi viene riconosciuto lo stato di rifugiato politico avendone fatto la richiesta qui. Però non ci possiamo lamentare, perlomeno in Italia abbiamo trovato pace. Non c’è tutto, ma si vive tranquillamente, se questa possiamo chiamarla vita. E’ da un paio d’anni che abbiamo occupato questo posto, a febbraio tra Comune, Regione e proprietà avevano intenzione di buttarci fuori, ora vedremo cosa succede(in realtà sembra che sia stato trovato un accordo di massima tra le istituzioni, la proprietà  gli occupanti alternativo allo sgombero dello stabile ndr) . Dove saremmo potuti andare? Il Movimento di lotta per la casa quello che poteva l’ha fatto, ma di fronte allo sgombero con la forza pubblica non c’è molto da fare. In ogni caso aspetteremmo il momento dello sfratto, perché prima, di spontanea “libertà” come dicono loro, di certo non andiamo da nessuna parte. Anche perché non esiste un’altra parte! Pensate che ora come ora mi pagano 250 euro al mese in media.. che ci si fa con una somma del genere? Il nostro unico pensiero è dove trovare da mangiare e da dormire, basta. Non c’è spazio per il divertimento, il cinema, la discoteca, una giratina, niente. Questo non è vivere, è sopravvivere. Le nostre vite sono diventate tutte così. Non possiamo pensare al futuro, pensiamo al presente e basta, giorno per giorno. Prima di occupare questo stabile, siamo stati tre settimane alla Fortezza. Poi è arrivata la municipale alle cinque di mattina, mentre dormivamo, e hanno preso tutto. Ora siamo qui da un anno e qualcosa, o forse due, non mi ricordo, gli anni passano come settimane. All’inizio eravamo 110 persone, tra eritrei, etiopi e somali e anche altri africani, mi sembra dal Congo. Tanti di noi prima di stabilirsi qui hanno girato un anno o due per l’Europa: arrivi in Italia e fai la richiesta per essere riconosciuto come rifugiato politico, ma prima che ti venga data una risposta passano mesi, quindi cerchi il posto migliore possibile, finché un giorno ti dicono di rientrare in Italia o ti ci rimandano direttamente loro perché la tua richiesta è stata accolta, ma resta valida solo nel paese in cui l’hai fatta. Arriva gente nuova quasi ogni giorno, prima eravamo circa due persone per stanza, ora ce ne stanno anche sei o sette. Se arriva un tuo amico non lo lasci per strada, e allora viene da te. Io “per fortuna” ho trovato pochi amici qui.. non credo che cambierà mai questa situazione. Non posso tagliarmi la mano per emulare i controlli delle impronte digitali, sinceramente ne faccio volentieri a meno. Pensavo poi che a Malta ci sono tantissimi rifugiati politici, e sono tutti sistemati. Perché questo non è possibile in Italia?

 

 

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