La forza delle mediazioni e il bisogno di organizzazione

Una lettura de «Sul buon uso dell’impazienza» di Salvatore Prinzi

Queste righe servono a introdurre un testo ricco di spunti per un dibattito tra i compagni sul tema dell’organizzazione. L’intento dunque, più che di farne una lettura critica, è quello di aiutare un lettore ad avvicinare il libro, raccogliendone alcuni brani, presentandone alcuni nodi in un registro accessibile e connettendoli a tematiche ed eventi attuali. Inoltre, sono presenti dei rimandi ad alcuni recenti contributi di compagni che suggeriscono e rilanciano la necessità di questa discussione, in modo da creare un piccolo contenitore di dibattito sul tema.

1. Impazienza e capitalismo

La maggiore difficoltà di recensire “Sul buon uso dell’impazienza” di Salvatore Prinzi, uscito per Liguori nel 2012, si mostra già riflettendo sul rapporto tra titolo e sottotitolo. A un titolo squisitamente filosofico, incentrato sull’impazienza come virtù, si affianca un sottotitolo che recita: «Crisi, movimenti, organizzazione». Bisogna dunque preliminarmente rendere conto del passaggio – che costituisce il cuore del libro – da una riflessione teoretica e morale all’attenzione militante per le forme dei conflitti contemporanei e per la strategia.

Il compito è un po’ più difficile perché sono legato all’autore non solo da un rapporto di amicizia, ma da una certa complicità nel posizionamento dentro il dibattito politico. Un’affinità che è nata probabilmente scoprendo la comune esigenza, dopo molte peripezie, di dedicare una tenace cura nell’organizzazione di quei legami, di quegli incontri – spesso tumultuosi o eccessivamente sporadici e adrenalinici – che è naturale fare quando si attraversano le stesse lotte. Il pericolo in agguato è quindi di leggere nel testo troppo – o troppo poco – e di piegarlo eccessivamente alle proprie istanze. Di conseguenza, in una prima parte cercherò di raccontarne alcuni nodi ricorrendo spesso e volentieri a estratti del libro stesso, mentre infine chiederò timidamente all’autore – e dunque per certi versi anche me stesso – di riflettere su qualche questione che il libro non affronta, sui passi che non ci permette di compiere, su dove non ci è d’aiuto e l’aiuto allora va cercato.

L’utile recensione di Nique la police si concentra su un tema fondamentale del libro di Salvatore: l’impazienza come virtù. Ma cosa c’entra l’impazienza con la lotta ai rapporti sociali capitalistici? Questa è la domanda preliminare cui rispondere. La questione riguarda l’antropologia filosofica: l’uomo è un animale particolare perché manca di organi e di istinti specializzati. Non ha un habitat proprio, non vola come un uccello, non ha le fauci come una tigre e non ha il pelo per resistere al gelo come un orso. E’ del tutto esposto alle forze della natura. Ma possiede un’inedita capacità di utilizzare le proprie capacità cognitive per trasformare ciò che incontra in natura per piegarla alle proprie esigenze. L’uomo dunque sviluppa tecniche di integrazione, agevolazione, intensificazione, ricorrendo alla propria capacità produttiva: è immediatamente forza produttiva.

Come il mito di Prometeo – tra i tanti possibili che le diverse civiltà hanno dedicato alla questione della téchne - illustra, questa capacità trasformativa è allo stesso tempo perturbante. Lo sviluppo produttivo è innanzitutto la possibilità di mettere in questione e rovesciare qualsivoglia rapporto di forza e gerarchia esistente. E’ una forza che sempre di nuovo inquieta l’ordine sociale vigente. Farò un esempio semplice: in una lotta vince chi possiede maggiore forza. La quantità di forza posseduta segna una gerarchia tra uomini. Ma questa gerarchia è sempre provvisoria, infatti un giorno il più debole può inventare e costruirsi una fionda e scagliare un sasso contro la testa di Golia. Allo stesso modo, un esercito di numero ampiamente inferiore al nemico può vincere una battaglia se è dotato di una tecnologia bellica superiore. Salvatore mostra efficacemente come, se l’uomo è questa potenzialità creativa e impaziente (che si dà immediatamente come carattere fondamentale dell’uomo), i poteri debbano tenere a freno, catturare e gerarchizzare questa capacità, pena il rischio di una loro dissoluzione. Un’idea di «potere» non tanto come repressione, ma come messa a produzione delle energie sociali. Ad esempio, «tutto il cattolicesimo può essere letto come una negazione, ogni volta ribadita, dell’impazienza […] La fondazione della Chiesa è un avvertimento a ogni impazienza messianica, è l’istituzione della pazienza. […] E “sopporta, abbi pazienza!” è il motto che unisce il sommo teologo all’ultimo dei contadini: verrà il nostro momento, nel frattempo prega e lavora» (p.3). Per quante parole si possano aggiungere, la questione del dominio sulla forza produttiva è trattata senza pari da Marx ed Engels nel Manifesto: «Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali».

Ma col capitalismo la questione cambia: Salvatore ci dice che d’un tratto «l’impazienza si afferma, conquista al suo culto sempre nuovi adepti, fino a trionfare» (p.4). Cosa è successo? Sempre il Manifesto ci dice: «La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”. Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche».

Nel rapporto sociale capitalistico i dispositivi di potere pazienti, fondati sul contenimento e sul dosaggio della capacità trasformativa, vengono meno. Viene a  costituirsi un dispositivo di potere impaziente, capace di aumentare a dismisura la forza produttiva dell’uomo, di rivoluzionare sempre di nuovo gli assetti sociali, pur continuando a ridistribuire asimmetricamente quanto prodotto: «La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti» (Marx e Engels, Manifesto).

2. La mediazione come nervature del capitale

Compiuto questo passaggio il libro si rivolge al suo centro di interesse, l’organizzazione delle lotte come un apprendimento, tramite «la rude scuola della pazienza», della «lentezza dell’impazienza» (p.15). Il capitalismo ha trasformato il terreno dell’impazienza nel campo di battaglia e ha disseminato sul campo di battaglia stesso le proprie armi, i propri comitati di affari. «Lo spazio che andrà dunque indagato e aggredito è quello della mediazione, della molteplicità di mediazioni – sia materiali che ideologiche, in ogni caso capillari – che riescono ad egemonizzare relazioni, iniziative e territori, assorbendo le aspirazioni più diverse e producendo persino soddisfazione e riconoscimento, e che ciononostante in certi punti e in certi momenti non tengono, non riescono a superare le contraddizioni di fondo della società e a esaurire la domanda di giustizia» (p.45). Questa battaglia non può essere combattuta se non si è disposti a «indagare quel coacervo di rapporti di forza, formazioni collettive, istituzioni, simboli, in cui si è costantemente immersi e che strutturano da parte a parte l’esperienza soggettiva, determinandone la materialità e colonizzandone l’immaginario» (p.21) (ci viene in mente la preziosa inchiesta della redazione di BG-REPORT sugli interessi degli attori economici e delle forze politiche in opere di alto impatto sociale e ambientale come l’autostrada BreBeMi e la Tav tra Treviglio e Brescia, come il noto lavoro di contro-informazione prodotto in val di Susa). Salvatore ci mostra dunque come il capitalismo istituisca continuamente apparati di mediazione come dispositivi di cattura e di gerarchizzazione dell’impazienza produttiva.

L’accento sulla mediazione mi trova particolarmente d’accordo. Specie in epoca di crisi, si sente spesso dire che lo Stato abbandona completamente i territori, lasciandoli così liberi per un possibile intervento dei compagni. Per certi versi, niente di più falso. I nostri territori al contrario sono pieni, governati principalmente da tutti quei corpi intermedi (partiti, sindacati, organizzazioni criminali, parrocchie, reti clientelari, comunità..) cui tradizionalmente uno Stato debole come quello italiano delega la gestione dei rapporti sociali e del welfare stesso. Che la crisi abbia investito anche l’efficace funzionamento di queste reti non vuol dire assolutamente che gli spazi di intervento si siano allargati. Anzi, ogni struttura intermedia tende a irrigidirsi e a esasperare quindi la competizione su risorse sempre più scarse, amplificando quella dinamica di frammentazione che si ripercuote anche nella capacità di generalizzare le lotte. Dove i poteri locali hanno ceduto di schianto, ecco che il grillismo (qui gli utili interventi di Nique la police, dei Wu Ming e di Loris Caruso) – che proprio nella feroce critica dei corpi intermedi trova la sua forza mobilitante – o movimenti come quello dei forconi (qui le interessanti e parzialmente divergenti analisi di Giorgio Martinico e dei Clash City Workers) si sono diffusi, con tutte le contraddizioni interclassiste e populiste del caso (sorgendo prevalentemente sul risentimento e la rassegnazione di soggetti che vedono in pericolo il proprio percorso di riproduzione e mobilità sociale e che sono socializzati dentro una cerchia ancora stratificata ed eterogenea per suggerire un riconoscimento di classe). Ma anche altre economie morali possono sorgere (come spiega questo articolo di Nique la police). E’ il caso, per esempio, di quella composizione giovanile disillusa che ha trovato espressione pubblica negli scontri del 14 dicembre e del 15 ottobre (vedi l’analisi di Militant), caratterizzata da squilibri analoghi, ma socializzata dentro cerchie parzialmente più omogenee dal punto di vista sociale (assorbendo una gran parte di loro l’instabilità familiare dopo qualche anno di crisi, vivendo il ciclo formativo come un parcheggio e l’accesso al lavoro come un’operazione al ribasso). Qui si producono una serie di piccoli aggregati coesi che, nonostante siano sensibili a un immaginario comune, tendono ad aggregarsi tra loro solamente in momenti occasionali e di forte impatto energetico, soffocati altrove dalla residuale e insufficiente forza delle mediazioni.

Di conseguenza, nota Salvatore, bisogna ripensare la questione dell’organizzazione in relazione all’efficacia nel competere contro – e infine rovesciare – questo complesso apparato di mediazioni. E qui troviamo delle pagine interessantissime che ripercorrono lo scacco dei movimenti rivoluzionari che hanno seguito il ’68 e, «declinata stavolta sotto forma di farsa» (p.24), la storia dei movimenti degli ultimi venti anni.

Cedere un poco è capitolare tanto rappresenta uno slogan con cui si può compendiare la traiettoria di quel decennio insurrezionale nato col Maggio francese dove, registrato il tradimento e la cooptazione della sinistra istituzionale (che si faceva apparato di mediazione lei stessa), si decise di non accettare mediazione alcuna e concepire la militanza rivoluzionaria come pratica dell’immediatezza – e il percorso è finito con «le classi al potere che cedevano parecchio, ma non capitolavano affatto» (cioè concedevano welfare e diritti e preparavano la controffensiva neoliberale) mentre i rivoluzionari, «i peggiori, che cedevano parecchio, e finivano per capitolare del tutto» o «i migliori invece che non cedevano, e capitolavano ogni giorno, anzi si ritiravano per non capitolare ancora […] o tiravano dritto fino alla prigione» (p.24).

Caduto il muro, il movimento altermondialista europeo condivideva col precedente ciclo di lotte «qualche sogno e ne viveva curiosamente gli stessi dilemmi: fra sbandamenti nichilisti e volontà di riconoscimento e integrazione, fra il rifiuto generalizzato di questa società e il tentativo di dirigerla, fra l’utopia di cambiare il mondo e l’intenzione pragmatica di farlo da subito, anche partecipando ai giochi istituzionali» (p.26) e cadeva così nella doppia impossibilità di un conflitto aperto, per il rapporto di forza sfavorevole, e di una compatibilità con l’esistente fatta di cooptazione e della rappresentanza ormai screditata di partiti e ONG.

C’è stata anche una terza via al doppio scacco altermondialista, una via forte in Italia e influente all’estero portata avanti dalla corrente post-operaista. La questione è che per queste teorie il capitale, una volta sparita la forza statuale e dei grandi contenitori gerarchici e intermedi, si pone su un unico «piano di immanenza» che interviene sul singolo «senza mediazioni» (Impero di Hardt e Negri, pp.68-69). A questo si contrappone immediatamente il «general intellect» delle moltitudini, a cui «basta “solo” disarticolare il “comando parassitario” e la rendita del capitale per fare il comunismo» (p.28). Commenta ancora Salvatore: «Qui l’impazienza rivoluzionaria, in passato alle prese con passaggi tattici e contorte strategie, non ha più ragion d’essere, o meglio: trova la sua soddisfazione in un modello concettuale e in una descrizione della realtà che gli assicura che non c’è nulla fuori, o dopo. Il dentro e contro dell’operaismo è affievolito nel dentro e qui: è già tutto vicino, basta lasciar esprimere la potenza della moltitudine». Una moltitudine desiderante che rifiuta ogni mediazione all’espressione del suo desiderio.

3. Il desiderio di politica

L’argomentazione ora diventa molto serrata. Salvatore individua il nodo: «si pone un problema non facilmente aggirabile: è possibile – per quanto sia evidentemente allettante – una politica del desiderio?» (p.35). Un desiderio evidentemente incapace di riconoscersi come derivato da una o più mediazioni, che non si coglie incanalato dentro un processo di socializzazione indotto dagli ordini del discorso egemone. Torna dunque il peso delle mediazioni, anche se per certi versi mutato: «E’ noto che Foucault e Deleuze [tra i riferimenti del post-operaismo] volevano compiere una rottura sul piano epistemologico e ontologico che mostrasse un diverso, forse più radicale (nel senso del rizoma) modo di essere e dell’essere: d’altronde si trattava anche di contestare strutture autoritarie, vincoli familiari, padronali, relazionali, all’epoca ancora molto forti. Ma che ne è di questo tentativo quando i dispositivi di dominio hanno assorbito la critica e il messaggio invalso nella società non è più “lavora e non godere!”, ma “godi, consuma, sii felice!”, quando all’obbedisci e stai zitto” si passa all’“esprimiti, trasgredisci – ovviamente entro certi limiti”?» (p.35).

Il desiderio, nella sua impazienza, è a tutti gli effetti uno strumento dell’ordine sociale, un veicolo di ricomposizione di un sociale frammentato, una notte in cui tutte le vacche sono nere: «il problema è piuttosto confessare che il desiderio è già preso dentro una mediazione, che la sua formulazione è un composto, di cui semmai vanno individuati gli elementi per provocare altre reazioni» (p.38). E ancora: «Sono queste innervature del capitale [le mediazioni] a cancellare ogni esternità dei senza parte, a farli complici del potere, vanificando ogni loro immediata opposizione; sono queste complesse modalità di dominio a rendere aporetica quella lettura di Marx (e ingenua quella concezione del comunismo) che immagina una trasformazione quasi spontanea e ovunque simultanea» (p.45).

La crisi economica, «con il suo correlato di proletarizzazione e impoverimento, con lo spostamento di attenzione dal consumo alla produzione, con l’erosione di quegli spazi di negoziazione e di redistribuzione che permettevano di governare i territori» (p.43) ha mostrato come la politica del desiderio deve allora essere sostituita con un desiderio di politica, ovvero con un desiderio di organizzazione, di programmazione, di domande collettive e di faticosi passaggi, di creazione degli strumenti politici adeguati, di gestione comune della complessità del desiderio, di egemonia. Qui la critica pare rivolgersi a quelle «narrazioni tossiche» che, generosamente ma troppo entusiasticamente, individuano un po’ ovunque i soggetti rivoluzionari o un nuovo grande ciclo di lotte transnazionali o il sorgere diffuso di nuovi contropoteri. E’ un automatismo molto presente nel dibattito esaltare il sorgere di conflitti fuori dai nostri confini nazionali, riconnettendoli a uno stesso ciclo al di là delle differenze strutturali che esprimono e, cosa peggiore, esasperandone gli elementi di indicazione per la nostra azione, qui e ora. La questione è cosa rimane in mano, a chi soffre e lotta, dopo ogni esaurimento del ciclo? Quale forza è stata accumulata? Quali rapporti di forza sono in procinto di mutare? Qual è il soggetto di riferimento dentro cui marciare? Come generalizzare la lotta e non solo la narrazione di una lotta? Come rendere più stabile la trasformazione? Per queste sfide occorre veramente impegnarsi in «un processo dialettico che preveda allo stesso tempo sia l’intervento sulle mediazioni esistenti, per frantumarle attraverso l’amplificazione delle loro contraddizioni, sia la preparazione di mediazioni altre, nuove, formulate intorno ai bisogni collettivi, più solide quindi, e meno contraddittorie» (p.48).

4. Lo spettacolo come mediazione

Il problema che Salvatore denuncia è quello di un culto dell’immediatezza, «non di ogni sua forma, come vedremo: ma di quell’immediatezza che non ci appartiene e parla al posto nostro, quella che non segna alcuna discontinuità con quanto già esiste e che si arroga il diritto di essere l’unica fonte di verità» (p.55). Ancora: «Dobbiamo sottoporre a critica tutte quelle visioni e quelle affrettate teorie che ci narrano compiaciute di una nuova “epoca” in cui le forme “classiche” di mediazione – dall’appartenenza familiare a quella territoriale o di classe, dagli apparati dello Stato alle strutture che producono e trasmettono conoscenze, passando per i partiti politici, e soprattutto per le organizzazioni del lavoro e della produzione – sono ormai scomparse, lasciando così spazio all’individuo troppo sovrano, capace finalmente di liberarsi dai vincoli e affermarsi per quello che vuole davvero essere, o troppo poco sovrano, suddito in balia di volontà arbitrarie e arcani imperii» (p.57).

Per compiere un ulteriore passaggio verso la critica del presente, la riflessione adesso si fa forza della critica di Debord allo spettacolo. Qui è possibile solo fornirne alcuni spunti. Le mediazioni servono a ricomporre e tenere insieme un mondo irreparabilmente separato e diviso dal funzionamento stesso del modo di produzione capitalistico: la separazione del lavoratore dal frutto del proprio lavoro e la conseguente conflittualità tra le due classi antagoniste prodottesi. C’è una necessità, per i poteri, di ricreare un’unità del mondo in una proliferazione di immagini e di mediazioni che ci permettano di neutralizzare il trauma e il conflitto «senza quasi accorgercene» (p.71). Per Debord lo spettacolo, lontano da essere il media, cioè lo strumento mediatico, è l’organizzazione delle mediazioni, cioè la forza di suscitare un’impressione di solidità, di riconoscimento e di solidarietà nello spettatore. Lo spettacolo non è un aspetto del capitalismo, ma la figura che esso assume in questa fase, un «rapporto sociale tra individui, mediato da immagini» (Debord, La società dello spettacolo). Commenta Salvatore: «Infine, quanto più la separazione, la diseguaglianza tra dominanti e dominati si accresce sul piano reale, tanto più lo spettacolo la cela e la perverte nelle sue immagini. Così facendo lo spettacolo si propone come un ordine in grado di generare spontaneamente consenso, perché unisce “verticalmente” nelle illusioni, nello scintillio dei brand, nelle identificazioni psichiche, coloro che sono materialmente contrapposti, mentre “orizzontalmente” ricompatta gli aggregati frammentati e serializzati di un potenziale conflitto nella condivisione degli stessi fantasmi – ed è questa l’unica uguaglianza che possa permettere» (p.74).

In Italia, dove lo strapotere della televisione si è palesato con particolare intensità, questi processi non vogliono significare una sostituzione delle vecchie mediazioni con i media, ma che le stesse vecchie mediazioni ricevono una ri-significazione spettacolare, persistono mutate e riformulate dentro lo spettacolo.

La potenza dello spettacolo come mediazione è quella di inglobare dentro di sé anche una parte delle reazioni ai rapporti di potere, rendendole innocue e funzionali. Le note che Salvatore dedica ai riot (inglesi come francesi) mostra l’ambivalenza di una rivolta che non riesce a sottrarsi al potere individuante della merce e che non va ad intaccare alcun rapporto sociale.  Anche qui il tema dell’organizzazione torna centrale, dato che «spontaneamente» spesso si produce «solo una vaga ostilità, e quelle improvvise esplosioni, scontri o rifiuti, si concentrano non a caso intorno all’aspetto visibile del potere: o nel confronto con i rappresentanti dello Stato, ovvero con le forze dell’ordine, o nell’appropriazione/distruzione (le due cose sono i lati della stessa pulsione) delle merci e dei beni di consumo» (p.113). Fenomeni ben presto ricondotti alla ragione dalla repressione e dallo spettacolo stesso che producono.

E’ tramite la mediazione dei media che i bisogni sociali dell’epoca trovano appagamento, cioè l’amministrazione di questa società e di ogni contatto tra gli uomini viene sempre più delegata all’opera del media.

Molto interessanti sono allora le pagine dedicate ai social-network. L’obiettivo polemico sono quelle teorie apologetiche degli esiti immediatamente emancipatori delle nuove tecnologie. Al contrario, ciò che i computer costantemente connessi in rete, il web 2.0, i tablet e gli smart phone indicano è una logica che Salvatore definisce dell’immediale, ossia il mediale, la mediazione spettacolare, che riesce a fondersi con l’ambiente, che ci immedesima nello spettacolo illudendoci di esserne i protagonisti. Infatti «Qui la profezia debordiana sembra realizzarsi in pieno, e oggi i social network rappresentano al meglio la cartografia – o meglio: il campo di una nuova psicogeografia – di quell’essere isolati insieme che già ne La società dello spettacolo definiva il movimento di scissione e di riconnessione dei proletari: “il movimento generale dell’isolamento, che è la realtà dell’urbanismo, deve anche contenere una reintegrazione controllata dei lavoratori, secondo le necessità pianificabili della produzione e del consumo. L’integrazione nel sistema deve recuperare gli individui isolati in quanto individui isolati insieme”» (p.95).

L’argomentazione avanza molto raffinata e incalzante, descrivendo la fenomenologia delle nuove forme di spettacolo (e anche solo per questi passi la lettura del libro è estremamente istruttiva) e analizzando pregi e difetti. Il punto è che la critica non va rivolta all’eccesso di tempo passato on-line, a una realtà digitale che avrebbe soppiantato la realtà «vera», ma verso dei «processi materiali in atto che strutturano codici, apparecchiature e tecnologie adatte a rinforzare il dominio» (p.97): la logica che informa lo spettacolo dei nuovi media è la stessa logica contraddittoria del modo di produzione capitalistico. «Questa distinzione ci dice soprattutto che i media vecchi e nuovi, così come i sistemi di controllo e i vari dispositivi del dominio, non sono al centro della società, che è occupato piuttosto da forze produttive e rapporti di produzione. E che dunque nel mediale si riproducono i processi, le contraddizioni, le tensioni che attraversano tutto il corpo sociale messo al lavoro dal capitale» (p.110).

Ma anche questo piano dello spettacolo odierno è attraversato da fenomeni di differenziazione e di secessione: come dimostra il ruolo della rete nella comunicazione e sedimentazione di pratiche di ribellione, grazie ai nuovi media riescono a riprodursi economie morali situate e, in potenza, antagoniste: «Queste forme di interazione creano in qualche modo nicchie separate, embrioni di critica e di autonomia, che impediscono l’estensione e l’affermazione di quell’opinione pubblica indifferenziata che abbiamo visto prodursi nella società spettacolare. In tali componenti metropolitane, che mostrano per altro una chiara connotazione di classe, si riproducono arcaismi o appartenenze familistico-comunitarie, ma si generano anche tendenze, culti, narrazioni, incontri che riferiscono di esperienze materiali di subordinazione, così come di aspirazioni e istanze potenzialmente emancipatorie e in definitiva la capacità di una collettività di farsi media» (p.113). Su questi temi, che qui accenniamo solamente, la riflessione compiuta in Italia da InfoFreeFlow dovrebbe diventare via via un patrimonio sempre più condiviso.

5. La forma del movimento

La critica politica di Salvatore si rivolge a quella forma di movimento, ben descritta da Nique la police in questo articolo e a lungo egemone in Italia, che ha ritenuto possibile vincere competendo sul piano dell’opinione pubblica e non su quello del radicamento concreto nelle contraddizioni fondamentali: «D’altronde, se il potere mediale si produce innanzitutto a partire da un potere reale, da una capacità di imporsi di una classe o di un gruppo nei punti-chiave della società, dunque nel luogo di produzione di quei beni che soddisfano la vita, sembra difficile costruire un potere mediale antagonista senza un’accumulazione di forza nei luoghi dove si sviluppa lo scontro fra le classi, senza creare forme di organizzazione dentro la contraddizione capitale/lavoro (che, va da sé, riguarda direttamente anche la disoccupazione, il lavoro nero, i vari tipi di precarietà)» (p.114). E qui emerge il cuore della critica politica del testo, che compendia una buona parte della discussione comune che il collettivo frequentato dall’autore – Clash City Workers – ha compiuto al proprio interno e che utilizza come strumento nell’azione: «A differenza di quanto fatto dai movimenti degli ultimi venti anni – che hanno ignorato la centralità dei rapporti di classe e hanno creduto che per fare avanzare le proprie rivendicazioni bastasse irrompere nel mediale, finendo così per vivere il rapporto con il media o nei termini della subordinazione o, per contrasto, nei termini di una elusione -, un lavoro che voglia essere egemonico deve sforzarsi sia di individuare i punti alti dello sviluppo capitalistico, cercando di interrompere e ostacolare la riproduzione del capitale, sia di incrementare la comunicazione dell’esperienza tra i lavoratori, rendere comprensibili le lotte, avere la capacità di fare informazione, dunque solidarietà, costruzione di un immaginario antagonista. Guadagnare questa capacità mediale non vuol dire solo riuscire a incidere o stare dentro il media mainstream, ma innanzitutto connettere la propria classe di riferimento, creare agibilità, recuperare quel terreno oggi lasciato scoperto dalle classi dominanti ed esposto alle più diverse fluttuazioni, diventando così, nell’epoca dell’immediale, soggetti politici a pieno titolo. In grado cioè di usare il mediale per rispondere alla dispersione, e per esercitarsi a gestire funzioni e strutture complesse» (p.121. Da questo punto di vista, cfr. il comunicato del Fronte di Resistenza Operaio dell’Irisbus).

6. Qualche domanda

A pagina 120 Salvatore ci dice dunque che un «lavoro che voglia essere egemonico deve sforzarsi di individuare i punti alti dello sviluppo capitalistico», che «non sono quelli più “moderni”, ma quelli in cui si estrae plusvalore». E dedica una lunga nota a un’analisi di classe della situazione italiana. Sottolinea come, sul piano globale, la classe operaia sia sempre più numerosa e come in Italia, di fronte a una sua flessione incontestabile (tenendo conto però delle esternalizzazioni e del lavoro nero), molte mansioni impiegatizie si proletarizzano e la struttura sociale complessivamente si semplifica. Il lavoro dipendente costituisce ormai i tre quarti degli occupati e l’80% dei lavoratori percepisce una busta paga sotto i 1500 euro.

Per l’autore, la possibilità di generalizzare una lotta sta nel riconoscere i processi materiali della società e di riuscire a tracciare i contorni di un’entità sociale consistente, accumunata da solidi interessi: la classe. Ma qui, il dibattito deve fare un passo avanti. Occorre capire, anche e soprattutto dal punto di vista dell’organizzazione di una «rappresentanza politica» della classe in Italia, in quale scenario locale siamo immersi e che rapporto questo ha con un contesto più generale. Potrebbero venire alla mente le parole che Lenin ha dedicato al ruolo strategico dei socialisti svizzeri, che grazie a una maggiore agibilità locale (ad esempio la libertà di stampa), potevano offrire un forte supporto logistico alle «truppe al fronte». Ma anche questo forse è uno scenario che la crisi ha reso inattuale. E allora, se recenti contributi hanno sottolineato l’obsolescenza e l’inattualità dell’odierno modello politico-rappresentativo e della Costituzione che lo sostanzia (Nique la police, Bausano-Quadrelli)  di fronte a trasformazioni strutturali del modo di produzione capitalistico, è il momento di investigare a fondo «il mutamento radicale che ha sovvertito per intero il modello delle relazioni industriali europee del Novecento e ha dismesso l’intera cornice entro cui, per un’intera arcata storica, si sono date le relazioni tra capitale e lavoro salariato, tra borghesia e proletariato. Ciò che si manifesta è un modello relazionale tra le classi decisamente asimmetrico» (Quadrelli,  introduzione alla nuova edizione di Gabbie metropolitane).

Dovendo mettere a fuoco una fotografia dell’Italia della crisi è necessaria un’analisi della struttura di classe del paese e anche un’indicazione delle linee di tendenza. La questione del neocorporativismo e della ristrutturazione produttiva, il problema posto dall’inadeguatezza della borghesia imperialistica nazionale nella competizione internazionale, ma anche soprattutto l’egemonia della moneta sul lavoro e il conseguente declino del lavoro, che in Italia e in Europa si contrae e degrada, «mentre la scienza del declino, rappresentata dalle privatizzazioni, è sofisticata e innovativa. Curiosa è la vita, quella di un continente, quando la scienza più innovativa è quella che si occupa di accelerare il declino» (Nique la police, Le riforme costituzionali tra pretesto e realtà). La questione, infine, di quali mediazioni, edite e inedite, le classi dominanti metteranno in campo per contenere uno scenario in cui è programmaticamente prevista l’esclusione di una grossa fetta di popolazione da qualsivoglia rappresentanza dentro il modello economico e sociale vigente.

E qui arriva il dubbio che rivolgo, troppo sinteticamente, a Salvatore. Il capitalismo contemporaneo, non solo nelle aree caratterizzate attualmente da una grande espansione economica ma, ci accorgiamo ora, anche nel decadente Occidente, è caratterizzato dalla compresenza di tempi, forme del lavoro e regimi produttivi estremamente eterogenei. Ciò rende poco efficace la narrazione storicistica proposta da una parte della critica marxista, cioè un corso del processo di sviluppo storico che, attraverso differenti stadi (tra cui, a volte, la piena occupazione), conduce verso un progressivo aumento delle condizioni oggettive per la lotta di classe. Siamo soprattutto ben lontani dalla piena occupazione e questa è una condizione che accomuna paesi oggi economicamente forti come l’India e la Cina (e per certi versi la Turchia) a subprimes country come l’Italia o la Spagna. Una fetta di popolazione è esclusa dal lavoro salariato, permangono situazioni “feudali”, si sviluppano ampie sacche di economia informale (che pur rimangono catturate dal rapporto sociale capitalistico): si assiste a una contemporanea presenza di sviluppo e sottosviluppo, di accumulazione capitalistica e di accumulazione di miseria. La crisi dello Stato sociale in Europa lascia presagire la rapida diffusione di una situazione visibile nelle periferie delle grandi metropoli extra-europee, fatta di estrema precarietà occupazionale, della fragilità dei diritti collegati al lavoro e di persistente povertà di massa. Scrivono Mezzadra e Roggero nell’introduzione di un bel libro dell’economista marxista indiano Sanyal, Ripensare lo sviluppo capitalistico (La casa Usher 2010): “La nave dei folli e la terra desolata popolate dalle moltitudini di spossessati prodotte dallo sviluppo capitalistico nel suo cieco incedere sono dunque destinate secondo Sanyal a rimanere presenze strutturali nel paesaggio postcoloniale. E vana è la speranza che quelle moltitudini siano progressivamente riassorbite all’interno del modo di produzione capitalistico e dei rapporti salariali che dovrebbero connotarlo: procedendo a un ritmo sincopato, interrotto di continuo dal riproporsi della violenza dell’origine, esso include nella misura in cui esclude, determina accumulazione di ricchezza secondo la stessa logica con cui determina accumulazione di povertà e ripropone la ‘sfida degli slum’, per citare il titolo di un rapporto del programma Habitat dell’ONU (2003) ripreso in un libro recente da Mike Davis. E’ evidente che, se così stanno le cose, i movimenti e le lotte dei poveri assumono una valenza politica fondamentale”.

Cosa fare dunque in assensa di un “pieno” sviluppo delle forze produttive, per come ce lo aspettavamo? I problemi politici che si aprono riguardano come connettere sfruttamento e spossessamento, classe e indigenza. Come è possibile politicizzare la povertà insieme o dentro a un discorso di classe? Un dibattito a tutto tondo sulla lotta di classe oggi a cui il libro può solamente alludere, più nei silenzi che nelle prese di posizione, e indicarne la necessità.

 

Lucrezio Schwarz 

 

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