C’è qualcosa di nuovo oggi nel mondo, anzi, di antico: Isis …

Riceviamo e pubblichiamo:
A proposito di : Antropologia politica di Isis

«La stampa quotidiana e il telegrafo, che dissemina le sue elucubrazioni in un batter d’occhio su tutta la superficie della terra, fabbrica più miti– e il bovino borghese li crede e li propaga – in una giornata di quanti se ne potessero diffondere in secolo nell’antichità».

Karl Marx

La stampa quotidiana oggi ha sicuramente un ruolo minore rispetto ai tempi di Marx, ma ce l’ha pur sempre; il telegrafo frattanto è diventato Internet, e il rincoglionimento è fiorito in modo esponenziale … È questo un concetto di fondo che guida il testo Antropologia politica di Isis, diffuso e redatto da Senza Soste/Nique la police.

La lettura è un po’ pallosa, ma è un contributo assai importante. Attraverso l’analisi delle forme comunicative di Isis, nonché di «Hollywood»[1], il testo spiega il fondamentale ruolo ideologico dell’immagine e la sua sublimazione politica, in un dimensione simbolica in cui prevale una componente mistica che finisce per impregnare la quotidianità, ovvero i rapporti sociali. Oggi più di ieri.

L’esposizione è ampia, densa com’è di riferimenti alle varie teorie in tema di comunicazione di massa. Tutto ciò per evidenziare che Isis non è un rigurgito medievale né l’espressione di un conflitto tra civiltà diverse, come molti sproloquiano (Huntington docet); sorvolando sulle ricorrenti fantasie su complotti made in Usa.

Isis è solo l’altra faccia della società capitalistica occidentale. Ne presenta tutte le stimmate, che sono appunto la manifestazione esteriore, «culturale e antropologica», di una medesima struttura economica, fondata sul modo di produzione capitalistico. Non solo. Ne riprende le medesime tendenze verso la finanziarizzazione esasperata che oggi connotano la vita economica capitalistica. Motivo per cui «lo stato islamico non fa parte solo della cultura globale ma anche della finanza globale», avviluppandosi in quel groviglio di interessi, in cui i confini tra Occidente e Oriente diventano molto labili. E questo ci dice già molto. Se non tutto.

Isis è l’immagine speculare della società occidentale, forse è più ingenua. Ma forse è più incazzata. Il «forse è d’obbligo». Anche se l’incaz-zatura islamista viene sicuramente accresciuta in un’area che il benessere occidentale l’ha conosciuto solo in parte e per un periodo più breve. Soprattutto perché nei Paesi islamici lo sviluppo del modo di produzione capitalistico è avvenuto in modo indotto e subalterno all’Occidente.

Una parodia affascinante

Isis NON costituisce però una rottura e neppure un’alternativa, al modo di produzione capitalistico; NO, costituisce semmai una critica e una contestazione al modello occidentale di capitalismo (ma è possibile un modello diverso?) che, con la crisi, ha mostrato la corda, facendo venir meno quella weltanschauung basata su democrazia e libertà, condite con il welfare State. Consustanziali al capitale. A questi valori, Isis ne contrappone altri, ripescati nella tradizione islamica e adattati alla logica del capitale. Ne deriva una caricatura, che però non è priva di fascino e di attrazione, di fronte alla débâcle occidentale. A questa fascinosa parodia del modello occidentale appartiene a pieno titolo il mito comunitarista, da non confondere con il comunismo, «movimento reale che abolisce allo stato di cose presente». Il comunitarismo è solo un’ulteri-ore caricatura che cerca di conciliare la disgregazione capitalistica con gli impulsi verso la comunità. Impulsi «antropologici» che la religione ha sempre cercato di far propri, così come i moderni movimenti di massa fascisti e nazional-comunisti (di cui Costanzo Preve fu un epigono) con la mistica statalista[2], che il Califfato ripropone.

Sicuramente, la mistificazione sociale di Isis provoca il detournement dei concetti di lotta di classe e di rivoluzione proletaria, secondo lo schema occidentale, finora invalso.

Aspetto direi fondamentale per ristabilire il consenso, ma anche perché il detournement favorisce la natura trasversale, globalizzata, di Isis e spiega l’audience che esso riscuote in Occidente. E non certo tra i proletari, bensì tra quel ceto medio, un tempo orientato a sinistra (il cosiddetto popolo della sinistra), che appunto, sotto i colpi della crisi, ha visto appannarsi i valori fondanti del suo mondo beato, ma soprattutto ha visto dileguarsi il welfare. E al tempo stesso, questo ceto si pasce della realtà immaginifica diffusa dai media (la cultura del video clip), su cui gioca il messaggio di Isis.

Secondo un significativo sondaggio citato dal testo di Nique la police, in Europa, il maggior consenso, il 16%, Isis lo riscuote in Francia, Patria dei Sacri valori borghesi dell’89; a Gaza, il consenso scende al 13%. Con una differenza: mentre in Francia il 62% della popolazione è contrario a Isis, a Gaza è contrario l’85%. Non ci vuole un’analisi particolarmente raffinata per capire che i proletari sono poco sensibili a Isis, anche perché hanno un accesso minore, se non inesistente, ai media mainstream. In poche parole, sono meno rincoglioniti … o meno civilizzati, secondo i punti di vista.

A questo proposito, c’è infine da dire che «l’entità dei fondi a disposizione dello stato islamico è impressionante se lo si considera come organizzazione terroristica ma insufficiente se lo si vede dal punto di vista di uno stato che deve provvedere al futuro proprio o della popolazione».

Provvedere al futuro significa creare una prospettiva per il futuro che sia in grado di creare consenso. Venendo meno questa prospettiva, prevale un’instabilità crescente e di problematica soluzione, soprattutto perché «guerra sul campo e guerra finanziaria, oggi, difficilmente sono simmetriche». Sono questi problemi con cui dobbiamo fare i conti, abbandonando le suggestioni di un passato sempre più remoto e improponibile.

Dino Erba, Milano, 19 settembre 2014.


[1] Di questa contaminazione se ne è accorto, bontà sua, anche il Corrierone, restando però prigioniero dei soliti luoghi comuni: Guido Olimpio, Slogan e minacce il «mini-kolossal» con regia del Califfo, «Corriere della Sera», 18 settembre 2014, p. 17.

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