Calcio, società e globalizzazione

Pubblichiamo questo intervento di Alessandro Bezzi all’ultima edizione del Filosofestival

“La morale del mercato, che ai nostri giorni è la morale del mondo, autorizza tutte le strade che portano al successo, per quanto banditesche. Il calcio professionistico non ha scrupoli perché fa parte di un sistema di potere che scrupoli non ha e che è disposto a comprare l’efficacia a qualsiasi prezzo. […] Il fine giustifica i mezzi, e qualsiasi maialata va bene, anche se è meglio farla di nascosto.” E. Galeano

Non è certo una novità utilizzare il calcio come paradigma della nostra società e dei suoi paradossi: ciò che avviene intorno allo sport anticipa spesso eventi che poi entrano nella nostra quotidianità. Uno degli esempi più evidenti (e dibattuti) riguarda la sicurezza: sono in molti a considerare gli stadi come laboratorio di sperimentazione di nuove forme di gestione di situazioni delicate, che dalle curve si sposta presto ad altri contesti (es. manifestazioni). In un contesto che peraltro ha visto negli ultimi decenni una mutazione antropologica dei tifosi, sempre meno “ultras” e sempre più “consumatori” di uno spettacolo: di fatto sono stati interessi economici, prima ancora che politici, a portare avanti questa trasformazione.

Limitare le analogie al rapporto tra tifosi e forze dell’ordine rischia infatti di farci dimenticare il punto principale di ogni analisi sul rapporto tra calcio e società. Di fatto, lo sport è un enorme business che non si sottrae alle regole che guidano l’economia contemporanea.

Le società di calcio sono enormi multinazionali, che dettano (e ribadiscono) un modello economico che considera sempre meno la passione e sempre più il profitto. I calciatori altro non sono che lavoratori – ben remunerati solo in fascia top – di un mercato sempre più selvaggio. I tifosi sono consumatori sempre più sporadici e occasionali di un prodotto globale, servito nei loro salotti prima che negli stadi. Gli ultimi anni hanno visto un accelerazione di questo processo; da spettacolo rivolto principalmente alla working class e fortemente connotato su base territoriale, il calcio è diventato sempre più uno spettacolo televisivo da esportare. I Mondiali in USA (1994), in Giappone e Sud Corea (2002) e SudAfrica (2010) sono evidenti tentativi di allargarsi a nuovi mercati, e l’edizione in Qatar (2022) ben dimostra quali sirene attraggano realmente la FIFA. L’evoluzione che hanno avuto le squadre di club è altrettanto palese: multinazionali attente non solo all’aspetto tecnico dei propri giocatori, ma anche al loro appeal mediatico.

Negli ultimi anni, la sperequazione tra ricchi e poveri è aumentata in maniera incredibile sia nei paesi “sviluppati” (che vantavano una forbice minore) sia negli altri; e lo stesso gap è cresciuto a dismisura tra i top club e le altre squadre. Citando Occupy, potremmo dire che anche nel calcio è il famoso “uno per cento” a guidare un mondo che senza il 99% non si manterrebbe: quel 99% è un movimento articolatissimo di piccole società e di giocatori che danno la linfa ai giganti; che tengono viva la passione per il calcio grazie a milioni di società e migliaia di campionati “minori”.
Di fatto, la Sentenza Bosman del 1995  anticipa la successiva ondata di liberalizzazioni del mercato del lavoro. Il paragone può far sorridere, ma è evidente come l’assenza di una regolamentazione abbia portato ad un mercato del lavoro sempre più selvaggio: se per il top player (o per il top manager) questo ha significato contratti più remunerativi, per il lavoratore medio ha portato ad una drammatica precarizzazione.
Come le aziende più ricche si sono garantite posizioni di monopolio oramai inattaccabili (anche grazie a fenomeni discutibili come l’elusione fiscale o la delocalizzazione delle linee di montaggio in paesi con costo della manodopera più basso), ugualmente i grandi club si sono lentamente costruiti numerosi meccanismi atti a mantenere lo status quo.

Solo per citarne due:
- la composizione della Champion’s League: di fatto si garantisce l’accesso a tutte le squadre più potenti di un Paese, accentuando le sperequazioni nazionali;
- la ripartizione dei diritti tv: di fatto, un altro meccanismo che alimenta le diseguaglianze dando più soldi a chi più vince.
Non è un caso che oligarchi, petrolieri e sceicchi siano oramai in possesso di svariate società: possedere una grande squadra, oltre ad una fonte di introiti sicura nel lungo periodo, è anche un perfetto cavallo di Troia per inserirsi prepotentemente nel gotha della finanza europea. Gli sceicchi che consideriamo sciocchi scialacquatori sono in realtà ben consapevoli dei loro investimenti. E le proprietà dei grandi club rispecchiano perfettamente il capitalismo di un Paese: il passaggio dell’Inter al magnate indonesiano Thohir rappresenta da questo punto di vista il passaggio da un capitalismo familista (Agnelli, Berlusconi, Della Valle) ad uno effettivamente globale e “sradicato” dal territorio. Questo non significa che il primo sia migliore del secondo: le grandi famiglie italiane si sono servite per decenni del calcio per ribadire alla politica la propria posizione di forza. O per assicurarsi successive “discese in campo”.

Se il calcio si è oramai affermato come sport globale, anche le sue contraddizioni ben rappresentano quelle di una società sempre più diseguale: rendite di posizione per alcuni, precarizzazione per gli altri. E se il sogno di “Un altro mondo possibile” sembra essersi spezzato a Genova nel 2001, l’idea di trasformare lo sport sembra sempre più concreta: sempre più società parlano di “calcio popolare” o di “calcio minore”. Esempi?
Squadre che si basano sull’autofinanziamento e sull’azionariato popolare (“Meet the owners” recitava uno striscione dei tifosi del Football Club United of Manchester, società creata dopo la cessione del Manchester United ad una ricchissima famiglia USA, i Glazer. Esempi in Italia sono l’ASD Ardita e l’Atletico San Lorenzo a Roma, il CS Lebowski a Firenze, il Quartograd a Napoli); campagne per far giocare ragazzi stranieri, altrimenti vittime di incredibili cavilli burocraticil (la campagna Gioco anch’io lanciata da SportallaRovescia); società che scelgono di non tenersi il cartellino dei baby giocatori, altrimenti costretti a pagare migliaia di euro per svincolarsi; squadre che praticano lotta al razzismo e riqualificazione urbana (la polisportiva Liberi Nantes a Roma).

Aggregazione, redistribuzione, impegno sul territorio: se il calcio ben rappresenta l’attuale crisi culturale ed economica, forse può anche offrire alcuni spunti per uscirne.

Alessandro Bezzi

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