Il capitalismo “umanitario” sfrutta i profughi

Evgeny Morozov

Da qualche tempo la tecnologia digitale viene considerata una panacea per la questione dei migranti. I mezzi d’informazione sono pieni di storie su app e incontri di sviluppatori, annunci di corsi gratuiti per programmatori e grandi promesse umanitarie da parte delle aziende tecnologiche. Airbnb, Uber e perfino la Singularity university della Silicon valley sono salite sul carro con entusiasmo. Da Karim, il software che offre consigli ai profughi, al servizio di identificazione basato sul blockchain (il meccanismo di sicurezza usato da Bitcoin) per chi non possiede documenti, spuntano come funghi. Il messaggio è chiaro: la tecnologia sarà anche nelle mani dei privati, ma sono mani generose pronte ad aiutare i più sfortunati.

È un’altra prova che siamo alle porte di una nuova era di capitalismo responsabile? I manager sembrano convinti di sì. Nel 2004 Marc Benioff, amministratore delegato dell’azienda di cloud computing Salesforce, ha pubblicato il libro Capitalismo compassionevole: come le aziende possono fare soldi facendo del bene. Otto anni dopo John Mackey, amministratore delegato della catena di supermercati Whole Foods, ha pubblicato Capitalismo consapevole: liberare lo spirito eroico degli affari. A quanto pare le aziende sono eroiche per natura, ma sono intralciate dai governi. Il contrasto con il capitalismo predatorio e spietato degli albori è lampante. Il vecchio capitalismo irresponsabile, fondato sul saccheggio e sullo sfruttamento, è stato la causa del problema dei profughi: basta pensare alle aziende petrolifere che si fanno la guerra per le riserve del Medio Oriente o alle società finanziarie come Goldman Sachs che raggirano i governi locali. Il nuovo capitalismo caritatevole, invece, si basa sulla creatività e sull’innovazione.

O almeno questo dicono le aziende. In realtà l’euforia tecnologica scatenata dalla questione dei migranti è solo l’ennesima manipolazione del capitalismo caritatevole: dopo il greenwashing del falso impegno ecologico e l’openwashing delle false promesse di trasparenza, è il momento di coniare un nuovo termine, empathy- washing, per descrivere il comportamento delle grandi aziende che sfruttano le crisi umanitarie per propagandare il loro impegno sociale. Le iniziative di empathy- washing creano la falsa impressione che l’ingegno individuale, liberato grazie alle tecnologie privatizzate, possa tenere la situazione sotto controllo. In realtà, anche se alleviano temporaneamente gli effetti delle crisi dato che non possono risolverne le cause), consolidano la posizione delle piattaforme tecnologiche come intermediarie indispensabili per gestire la crisi.

La recente scomparsa dell’app I Sea, che incoraggiava gli utenti a localizzare e comunicare la posizione delle imbarcazioni dei migranti in difficoltà usando immagini satellitari del Mediterraneo in tempo reale, dimostra come queste iniziative possano fallire. Creata dall’azienda pubblicitaria Grey Group, l’app aveva ricevuto molti elogi sui mezzi d’informazione. Il problema è che non mostrava affatto immagini satellitari in tempo reale: gli utenti visualizzavano semplicemente un’immagine statica del mare, e cercarvi imbarcazioni in difficoltà era assolutamente inutile. I Sea chiedeva poco e prometteva molto: per essere in pace con la propria coscienza non c’era più bisogno di andare a fare volontariato in un campo profughi. Questo umanitarismo comodo e fittizio esprime il nostro desiderio di un mondo quasi magico in cui la tecnologia può risolvere miracolosamente tutti i nostri problemi.

Prendiamo il progetto Freedom as a service (Libertà come servizio), presentato dalla Cisco alla fine di maggio. A quanto pare si tratterebbe di sostituire i documenti d’identità rilasciati dai governi con documenti digitali che renderebbero indispensabile la mediazione delle aziende. Il ruolo di queste aziende sarebbe quasi invisibile, dato che oggi le infrastrutture tecnologiche nascondono la loro presenza sotto una patina di processi algoritmici decentralizzati e senza leader. “L’idea alla base di Freedom as a service è dare più potere alle persone, ai profughi e agli immigrati”, sostiene la Cisco. Ma di quale potere si parla? Del potere di “barattare, affittare, prestare, commerciare, scambiare”. In altre parole, si tratta di inserire i profughi in un’economia in cui l’unica possibilità di salvezza è trovare altri modi di mercificare l’intera esistenza umana.

Fino a poco tempo fa accostare le parole “libertà” (qualcosa che dovrebbe essere garantito dalla legge) e “servizio” (qualcosa che è offerto dalle aziende) sarebbe sembrato un ossimoro. Invece in un mondo in cui accettiamo che le aziende assumano non solo le funzioni dello stato sociale ma anche quelle dell’assistenza umanitaria, la “libertà come servizio” non fa una piega. La verità è che stiamo diventando tutti profughi esistenziali, e ogni tanto i giganti della tecnologia s’impietosiscono e ci offrono servizi gratuiti, documenti d’identità e l’opportunità di guadagnare grazie all’economia della condivisione. Presto non ci sarà più nessun posto dove rifugiarsi. 

fonte: Internazionale

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