L’Epifani(a) dell’ultimo partito di massa: verso Renzi premier

Alcune settimane fa, proprio sulle colonne non cartacee di questo sito, avevamo provato ad immaginare quali sarebbero state, dopo la non-vittoria nelle elezioni parlamentari di febbraio, le future trasformazione all’interno del Partito Democratico.

Il focus della nostra analisi si era concentrato in particolar modo sulla futura leadership. La nostra convinzione a tal riguardo verteva infatti sulla presunta incapacità del segretario Pierluigi Bersani, almeno nel medio periodo, di rafforzare e soprattutto mantenere il proprio ruolo di guida all’interno del partito. Insomma, come non è difficile da immaginare, la rapidità degli eventi ha, in qualche misura, sorpreso anche noi. Tuttavia rimangono inalterate, anzi probabilmente si rafforzano ulteriormente, le motivazioni che ci avevano portato a parlare come se fossimo dotati di poteri magici di previsione. In realtà la nostra analisi si basava esclusivamente sulle trasformazioni subite dai partiti negli ultimi decenni nei Paesi a capitalismo maturo. In accordo con le riflessioni di Bernard Manin, il passaggio da una democrazia dei partiti ad una democrazia del pubblico, non determina la scomparsa dei partiti stessi, ma semplicemente una profonda ridefinizione delle loro funzioni e strutture. Insomma, nonostante in molti abbiano provato a collegare il tramonto dei partiti con radicamento territoriale di massa all’eclisse dei partiti tout court, il processo che vediamo svolgersi quotidianamente è alquanto più complesso. I partiti infatti, dotati di una natura cangiante e di ampie capacità di adattamento alla realtà, non scompaiano affatto, ma ridefiniscono le proprie strutture e canali di comunicazione: diminuiscono la propria presenza fisica sui territori; emarginano il peso ed il ruolo degli iscritti; moltiplicano le apparizioni dei propri esponenti di spicco in televisione. Soprattutto mantengono inalterata la loro principale ragione di vita: la selezione delle élite politiche. Al riguardo,  però, si deve notare come vi sia un cambiamento di assoluta rilevanza: infatti, se nella democrazia dei partiti i gruppi dirigenziali erano in gran parte composti da burocrati e militanti dotati di entusiasmo, dedizione assoluta alla causa e capacità amministrative testate durante un lungo cursus honorum, nella democrazia del pubblico l’élite che viene selezionata è in primo luogo mediatica. Detto altrimenti l’attivista politico è sostituito dall’esperto di media. Il leader nella democrazia del pubblico dispone quindi di elevate capacità retoriche, instaura un rapporto personale e diretto con i rappresentati, esautora i corpi intermedi (associazioni, realtà sociali, ecc.) relativizzandone l’importanza.

Fornito un preciso, anche se ovviamente contestabile, quadro teorico, pensiamo di poter inquadrare con maggiore precisione la battaglia che negli ultimi mesi ha visto Matteo Renzi sfidare Pierluigi Bersani. Infatti, nonostante il secondo fosse risultato vincitore nelle elezioni primarie svoltesi per designare il candidato premier della coalizione di centro-sinistra, la sua leadership è sempre apparsa alquanto debole.

Questo era principalmente dovuto alle caratteristiche personali e politiche dell’ormai ex segretario democratico. Bersani infatti rappresentava con un elevato grado di perfezione il dirigente-tipo dell’epoca della democrazia dei partiti. Burocrate, uomo di partito fedele e leale, pessimo comunicatore, aveva acquisito le proprie abilità politiche in una lunga carriera amministrativa svolta prima a livello locale (anche con prese di posizione forti, come diffidare i medici emiliani dal parlare di rischio tumore rispetto agli inceneritori) e successivamente attraverso la “promozione” a Roma.

Matteo Renzi, al contrario, piega alla propria bramosia di successo il partito, lo utilizza come un trampolino di lancio, lo innova e lo trasforma attraverso la propria leadership carismatica. La carriera politica non appare quindi più volta ad acquisire un know-how spendibile poi ai massimi livelli dirigenziali, ma semplicemente alla promozione della propria persona, della propria immagine. Il Sindaco di Firenze si dimostra inoltre un competitor di straordinario valore, capace di utilizzare a proprio vantaggio gli strumenti ed i canali della comunicazione politica. Renzi infatti instaura un rapporto diretto e privilegiato con l’elettorato, chiede ed ottiene consenso sulla propria persona, coagula voti provenienti da settori della società con valori ed istanze confliggenti. La sua azione politica rafforza, in ultima istanza, una trasformazione della democrazia rappresentativa in plebiscitaria, chiarificandone ed esplicitandone l’essenza profonda: confronto tra élite per l’acquisizione ed il mantenimento del potere.

La mancata elezione di Romano Prodi al Quirinale ha quindi determinato l’ultimo atto, da segretario del Partito Democratico, di Pierluigi Bersani, costringendolo alle dimissioni. Tuttavia, la sorte della sua leadership appariva già segnata da tempo: le lancette della storia giravano infatti inesorabilmente nella direzione opposta a quella da lui auspicata. Matteo Renzi è quindi destinato a diventare, senza dubbio alcuno, il futuro candidato dei democratici alle prossime, più o meno vicine, elezioni parlamentari. Le ultime settimane hanno infatti determinato anche una sorprendente ricostruzione e pacificazione interna al partito proprio attorno alla sua figura. Da Massimo D’Alema a Leonardo Domenici, da Carlo De Benedetti a Fabrizio Barca, fino a Walter Veltroni, hanno tutti fatto trapelare, più o meno apertamente attraverso dichiarazioni ed incontri, il proprio sostegno all’attuale Sindaco di Firenze. Il quale rimane però indeciso sulle prossime mosse che dovrà intraprendere. L’elezione pro tempore di Guglielmo Epifani come segretario del Partito Democratico pospone infatti solamente di alcuni mesi la conta interna. Tuttavia, non ci aspettiamo, a differenza di quanto annunciato e scritto da molti noti commentatori politici, alcuna importante scissione. La ragione è molto semplice: i politici mirano a massimizzare il tornaconto personale in ogni circostanza, mostrando generalmente una forte aderenza al modello ideale dell’homo economicus. La limitata conflittualità sociale presente nel Paese, la mancanza di forti e strutturate organizzazioni partitiche alla sinistra del Pd, rendono infatti i costi di una scissione, a maggior ragione se tentata da un’esigua minoranza, maggiori, almeno nel brevio periodo, dei benefici ipotizzabili. Quindi, per il dispiacere di quanti immaginano il Pd come una forza di sinistra, auspicando semplicemente una guida maggiormente labour-oriented, il futuro vedrà ancora tutti appassionatamente assieme: da Fioroni a Barca, con Matteo Renzi candidato premier. Almeno fino alle prossime, vicine, consultazioni elettorali.

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