La contraddizione di genere e il conflitto di classe
Dice Wu Ming 1, in un suo commento:
“La contraddizione di genere ha che fare con la divisione del lavoro in base al genere, con la guerra tra poveri in seno al contingente degli sfruttati (lo sfruttato che sfrutta la sfruttata), con un colossale monte-ore giornaliero planetario di lavoro (quello domestico) che non viene riconosciuto come tale e non viene retribuito perché è considerato parte della “naturale” divisione dei compiti tra i generi (è “naturalmente” compito della donna dedicarsi a certe mansioni e non altre). Sessismo e razzismo sono principii regolatori inconfessati del mercato del lavoro, servono a stabilire gerarchie tra i lavoratori, e quindi antirazzismo e antisessismo sono parte della lotta di classe. Bisogna avere un’idea ben riduzionistica del “lavoro” per pensare che la contraddizione di genere sia esterna alla tematica.“
Parto da qui per ragionare di donne e lotta di classe. E’ chiaro che, come dice Wu Ming 1, la questione si riferisce al “contingente degli sfruttati”. Ma oltre gli sfruttati ci sono gli sfruttatori e le sfruttatrici e in quel senso la “lotta di classe” viene piegata soltanto alle esigenze di conquista di più alte posizioni di potere a partire da donne che evocano la discriminazione di genere per accedere alle vette attraverso le quote rosa.
Antisessismo e antirazzismo sono parte della lotta di classe ma non possono sostituirsi ad essa, negarla, rimuoverla e in realtà è quello che è successo a partire dal fatto che le alleanze identitarie interclassiste hanno decisamente offerto un alibi a chi voleva davvero rimuovere il conflitto di classe. Le politiche dell’identità (di genere) ad esempio, come si scrive qui, si oppongono al classismo ma lasciano la società di classe intatta.
Le politiche di identità di genere battono molto sul tasto del nemico comune, dell’unità di intenti in quanto donne (o altr@), e rimuovono specificamente ogni analisi sulle intersezioni: razza, classe, specie oltre che genere. Infine ci troviamo, noi precarie che facciamo parte del “contingente di sfruttati”, ad avere come unici alleati altri sfruttati come noi perché ho certamente più in comune con un operaio cassintegrato che con una signora borghese che dice di essere sensibile alla questione della violenza sulle donne. E in questo senso non siamo di fronte alla sfruttata che sfrutta altre sfruttate per ricavarne un beneficio. Siamo semplicemente di fronte ad una sostituzione di ruolo (quelle donne benestanti che parlano a nome di tutte le donne…) e ad una invisibilizzazione di soggetti. Nel caso della ex ministra del lavoro, per esempio, si tratta di una semplice persona che aveva anche per me un piano che mi obbligava a restare incastrata in quella dinamica di cui Wu Ming 1 parla nel suo commento.
Perché – mi chiedo – la società in cui lo sfruttato sfrutta la sfruttata è creata dallo sfruttato o da chi sfrutta pure lui? E possiamo anche pensare che la ministra sia sfruttata da altri sfruttatori ma alla fine andiamo all’origine e questa storia ha a che fare con il capitale, con chi ne trae profitto, con chi persegue politiche liberiste e chi lo fa, a prescindere dal suo genere, ha precise responsabilità politiche che non possono che essergli o esserle addebitate. Chi lo fa ha precisamente destinato me, uterodotata, al ruolo riproduttivo e di cura, e lui al ruolo di lavoratore retribuito e sempre disponibile a realizzar profitto.
Quando Wu Ming 1 parla di conflitto sociale e di classe, dunque, va detto che questo conflitto non può mai avvenire per alleanze identitarie, i generi, le razze, le specie, quanto piuttosto per affinità precarie e trasversali a tutti i generi, tutte le “razze” e perfino le specie. In questo senso il ragionamento si fa alquanto complesso. Si rischia, certo, di prestare il fianco a chi ritiene che non esista una questione di genere o meglio va chiarito che non c’è gara tra chi, tra i generi, è più mortificato se parli di quella che passa il tempo a riprodursi e a curare la famiglia o quello che è obbligato a perire in miniera per portare il pane in casa. Non c’è gara perché entrambi i ruoli sono stati costruiti ad arte, voluti, disegnati, immaginati, normati e disertarli è una opportunità, una prospettiva per ciascun@, che ribalta il risultato e realizza altre, forse, più libere identità.
In entrambi i casi, esattamente come si fa tuttora, quei ruoli sono stati costruiti grazie a una retorica che definisce “privilegio” l’esser madre e poter badare ai figli. Un “privilegio” per me dovrebbe essere quello di poter stare con la mia famiglia al punto che lo Stato si muove in mio “aiuto” e promuove politiche di conciliazione. Ovvero mi riporta a casa, per il mio bene, certo, perché è questo il mio valore, la mia ambizione, questo sarebbe l’obiettivo mio recondito, giacché non avrei sognato altro che di poter avere la pancia gonfia un tot di volte, abbracciare la prole, poi preparare manicaretti al mio compagno, come natura vuole. E questo disegno va in tilt quando una donna dice allo Stato: non sono etero, non voglio fare tutte queste belle cose in famiglia ma con una compagna del mio stesso sesso, non ho voglia di conciliare lavoro/famiglia perché ambisco alla reale suddivisione di responsabilità, perché non voglio figliare, perché voglio semplicemente lavorare, essere autonoma e decidere per me quel che vorrò fare nella vita.
La retorica del materno a tutti i costi, al momento, si serve di discreti stratagemmi per normare i comportamenti, a raccontare che le mamme senza i figli quasi muoiono, che di sola maternità possiamo vivere, che per “natura” siamo “istintivamente” portate alla cura e dunque ecco che spuntano fuori progetti di integrazione delle migranti esclusivamente “accolte” come badanti. Ecco che le sfruttate delle sfruttate degli sfruttati degli sfruttati ti dimostrano che puoi invertire l’ordine dei fattori quanto vuoi ma il risultato è sempre quello: la differenza di classe esiste.
Poi c’è tutta la cultura, che immagino anche Wu Ming 1 conosca bene, che educa l’uomo a immaginarsi privilegiato per il fatto di poter andare a femmine o a comprare la macchina di grossa cilindrata. Privilegiato sarebbe quello che trova in casa una femmina che tace e cuce, quello che non trova alcuna concorrenza sul lavoro anche quando si tratta di totale schiavitù, quello che a fronte delle grandi fatiche fatte, udite udite, avrebbe il diritto di declinare per se’, in termini minimalisti, il concetto di proprietà. Puoi avere una casetta. Forse. Puoi avere una macchinetta. Forse. Puoi avere delle cose e anche delle persone. Puoi avere una moglie e puoi avere dei figli. La proprietà dei figli però la devi spartire con le madri che sono perennemente sollecitate a immaginare che senza la maternità non sono niente.
Puoi avere, dunque, questo po’ po’ di cose e mentre festeggi il fatto che ti viene concesso l’uso dell’appartenenza infine sei uno schiavo anche tu, sei un consumatore, prima di diventare vecchio capisci pure che la casa non potrai mai avercela, la macchina tra l’altro inquina, le persone appartengono a se stesse e tu non sei che il prodotto sociale, prevedibile, scontato che altri hanno creato. E anche qui le diserzioni provocano un po’ di problemi. I gay che vogliono fare famiglia. Quelli che non hanno voglia di sposarsi. Quelli che non gliene frega niente di proprietà e appartenenze. Quelli che rifiutano la spinta a possedere e realizzano libertà. Quelli che si interrogano anche sentimentalmente giacché non preferiscono le dipendenze. Quelli che concepiscono le relazioni in termini orizzontali, che si assumono le proprie responsabilità, che vogliono dividere il lavoro di cura e hanno in mente di non mollare i figli, quelli che realizzano di già solidarietà trasversali ai generi e quando arriva una qualunque signora borghese a dirgli che lui discriminerebbe le donne si sentono un po’ presi in giro e anche un pochino offesi.
E’ tempo oggi di ripensare le politiche identitarie e raccontare le differenze di genere senza lasciarci ingannare da nessuno. Per esempio: uno degli argomenti maggiormente usati dai contesti borghesi per dire alle donne che dovrebbero stare tutte unite è che la violenza non avrebbe classe sociale. Il che è plausibile, anzi è vero. Ma la classe sociale è un gran problema nel momento in cui io non avrò risorse per prevenire, risollevarmi, guarirmi, risolvermi la violenza, quando l’unico intento di categorie borghesi è quello di consegnarmi a tutori legittimati da leggi oscene fatte in mio nome e senza neppure consultarmi, quando si usa questo argomento per ripartire ruoli che vedranno te come mio tutore e me esclusivamente come vittima, omettendo il fatto che se è il tutore a violentarmi quelle stesse donne che invocano l’unità non si esprimono neppure, quando donne borghesi usano la questione di genere per anestetizzare masse di ragazze precarie che immagineranno di risolvere tutti i propri problemi con la rimozione di un manifesto in cui si vede un corpo consensualmente nudo di donna.
La classe sociale è un gran problema nel momento in cui so che subisco violenza di genere a partire da chiunque mi imponga un ruolo e prevarichi la mia autodeterminazione. La ministra che progetta un welfare in cui io sono destinata a restare a casa mi violenta, e mi violenta quella che progetta di farmi apprezzare il family day esattamente tanto quanto mi violentano uomini che vogliono altrettanto. Allora le politiche identitarie dovranno parlare di culture veicolate e realizzate da chiunque, i cui effetti discriminatori ricadono su tutti/e. Su di me. Su di te. Su di noi. Qualunque sia la nostra identità di genere, il nostro orientamento sessuale, la nostra “razza” e la nostra specie.
Sono certa che tutte queste cose Wu Ming 1 le sa già. Io le ripasso ad alta voce. Per me e per chiunque abbia voglia di leggere.
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