Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo 1
Oggi come ieri, un fattore non secondario nella contesa fra le potenze imperialiste è costituito dal controllo delle materie prime e delle fonti di energia indispensabili per il funzionamento della macchina produttiva capitalista. In particolare, la storia del petrolio è piena di insegnamenti sui conflitti per la spartizione dei profitti e delle rendite, e del potere, fra i monopoli e fra gli Stati.
Si può dividere questa storia in due grandi tappe separate dallo spartiacque della Seconda Guerra mondiale. Nella prima fase assistiamo alla formazione dei grandi monopoli petroliferi, alle lotte senza quartiere per il controllo dei mercati internazionali, alle guerre di spartizione coloniale, alla ricerca di nuovi giacimenti – dal Venezuela al Messico e dall’antica Persia all’Indonesia.
Dopo la Seconda Guerra mondiale, la storia del petrolio s’intreccia con la presenza dell’imperialismo occidentale nel Medio Oriente. Quest’area, con il suo petrolio a buon mercato e le aspettative di immensi profitti, diventerà preda di tutti gli imperialismi: qui le grandi industrie petrolifere internazionali (soprattutto a base Usa), a rimorchio degli interventi militari delle potenze cui fanno capo, si impadroniranno delle ricchezze dei paesi produttori.
Le rivolte sociali che nel corso del 2011 hanno sconvolto l’Egitto, la Tunisia, la Libia ed altri paesi soggetti alle potenze imperialiste, determinate dalla crisi economica generale che attanaglia il capitalismo, hanno trovato nell’area mediorientale un terreno fertile: è qui che si annodano gli interessi politici, economici e strategici del capitale finanziario mondiale. Se gli scossoni hanno per ora risparmiato paesi quali l’Algeria e il Marocco ciò è dovuto al fatto che le borghesie locali hanno utilizzato la manna petrolifera o hanno fatto ricorso ad un massiccio indebitamento per soddisfare i bisogni di una parte della loro classe media, comprandosi la pace sociale sull’esempio delle borghesie dei paesi occidentali, dove l’opportunismo ha da un secolo e mezzo messo le sue salde radici.
Tralasciando qui gli aspetti di natura politica conseguenti la penetrazione economica, questa lotta per la conquista dei mercati è divenuta accanita in seguito ai mutamenti nel mercato mondiale a partire dall’inizio del Novecento e caratterizzati dalla importanza acquisita dall’esportazione di capitali rispetto all’esportazione di merci, dal predominio del capitale finanziario in campo internazionale e dalla periodica ripartizione del mondo tra i grandi Stati. Dietro a questi importantissimi mutamenti rispetto all’epoca del capitalismo concorrenziale, e che Lenin definirà come imperialismo, non bisogna vedere una particolare politica economica di aggressione, ma un vero proprio stadio o fase del capitalismo tout court in cui prevale una struttura monopolistica della società.
Il modo di produzione capitalista, nato nel XVI secolo, alla fine del feudalesimo, con la creazione del mercato mondiale, si caratterizza per una legge intangibile: produrre per produrre. La necessità dell’accumulazione spinge il capitale ad abbassare i costi di produzione e aumentare la produttività del lavoro. All’iniziale divisione tecnica del lavoro basata sulla cooperazione e la manifattura, farà seguito lo sviluppo del macchinismo e un conseguente mutamento delle fonti di energia utilizzate nella produzione: fino ad allora erano ancora quelle del Medioevo: acqua, legna, vento, forza animale.
La prima rivoluzione tecnica si ebbe a mezzo del XVIII secolo, in Inghilterra, con il passaggio al carbone e l’invenzione della macchina a vapore che permise al capitalismo di avviare il processo mondiale di industrializzazione e di sviluppare una tecnica adeguata al suo specifico modo di produzione. Come scrive Marx nel Capitale, il genio di Watt si rivela nel fatto che presenta la sua macchina a vapore non come una invenzione a scopi particolari, ma come agente generale della grande industria.
Alla fine dell’Ottocento altre due grandi innovazioni tecniche, l’elettricità, un’energia facilmente trasportabile, e il motore a combustione interna, metteranno le ali alla produzione e ai trasporti. Il motore a scoppio e il motore elettrico determinano l’abbandono dei motori azionati dal vapore.
Prima della diffusione di massa dell’automobile e dei consumi domestici e produttivi dell’elettricità, il petrolio è solo la materia prima da cui si ricava il cherosene da illuminazione e da riscaldamento dei quali copre non più del 4% del fabbisogno mondiale. Solo con la Prima Guerra mondiale sarà avvertita la sua importanza strategica come fonte di carburante per i motori terrestri, navali ed aerei. Oggi, con una quota dieci volte più grande, il petrolio è la prima fonte mondiale di energia.
1. Corsa all’oro nero e monopoli
La storia del petrolio dell’era capitalista comincia nel 1859 sulle rive dell’Oil Creek nei pressi della cittadina di Titusville in Pennsylvania, nel Nord-Est degli Stati Uniti, quando il petrolio zampillò da un pozzo scavato dal leggendario colonnello Edwin L. Drake con una nuova tecnica di perforazione. La notizia si sparse in un baleno e fece accorrere migliaia di cercatori che nell’oro nero vedevano un’alternativa all’olio di balena o al gas naturale diventati troppo costosi per l’illuminazione. Peraltro i nativi e i primi coloni già lo adoperavano a questo scopo.
Noto fin dall’antichità (Assiri, Bisanzio, ecc.), ma utilizzato come pece e bitume, ora il greggio fu per la prima volta distillato. Uno studio del professor Silliman, chimico dell’Università di Yale, accertò che il petrolio poteva essere portato a vari gradi di ebollizione distillando in maniera frazionata quei vari composti di carbonio ed idrogeno: la prima frazione, la benzina, sarà a lungo considerata un sottoprodotto; la seconda frazione chiamata cherosene troverà immediato impiego nell’illuminazione.
Ci fu la corsa all’accaparramento dei terreni da trivellare. In men che non si dica, sorsero città, ferrovie, raffinerie, oleodotti. La Guerra di Secessione che allora insanguinava gli Stati Uniti non solo non fu un ostacolo alla frenesia generale per il petrolio, anzi rappresentò uno stimolo per lo sviluppo degli affari. Ma la nuova industria era soggetta, assai più che quella del carbone, alle eccedenze di produzione e quindi ad improvvisi crolli dei mercati: la curva del prezzo era inversa a quella del numero dei pozzi trivellati e le ambizioni dei primi spregiudicati affaristi del settore furono rivolte non tanto al controllo diretto dei giacimenti quanto a quello delle reti di trasporto (soprattutto ferroviario) e di vendita.
Un uomo, il cui nome è diventato il simbolo dell’animal spirit del capitalismo americano, l’industriale di origine francese John D. Rockefeller (il suo vero nome era Roquefeuille, e suo padre, fervente calvinista, era già un filibustiere del commercio), fu coinvolto nel boom del nascente mercato del petrolio di cui intuì subito le enormi potenzialità economiche. Come molti imprenditori dell’epoca, Rockefeller, poco più che ventenne, aveva fondato insieme al socio Maurice Clark una società in cui si commerciava di tutto, purché avesse un prezzo di vendita, che operava nel territorio di Cleveland soprattutto nei mercati della carne e del frumento. Si lanciarono nel campo dei lumi a petrolio e avviarono alcune piccole industrie di raffinazione e di distribuzione di nafta e cherosene lungo la ferrovia di Cleveland. Il trasporto su rotaia era l’unico modo per trasportare il greggio dai luoghi di estrazione ai grandi mercati dell’Est e la città di Cleveland si trovava in una favorevole posizione geografica, oltre ad essere una città molto attiva che aveva tratto grandi vantaggi dalla guerra ed ora si apprestava a sfruttare il boom petrolifero.
I profitti elevati provenienti dalla raffinazione convinsero Rockefeller a dedicarsi esclusivamente al petrolio. In breve liquidò il socio e si dette ad una politica commerciale ambiziosa e aggressiva. Nella raffinazione operavano diverse società in concorrenza tra loro e Rockefeller ambiva al controllo monopolistico dell’intero mercato. Definì il contesto come “il grande gioco”: le aziende erano guidate da uomini che si sfidavano in affari come in aspre guerre personali senza esclusioni di colpi.
Ma l’entusiasmo nella corsa al petrolio si risolse rapidamente in una situazione di sovrapproduzione e tra il 1865 e il 1870 il prezzo si dimezzò causando perdite economiche sia ai produttori-estrattori sia alle aziende di raffinazione. Il tipico panico che segue una fase di grande entusiasmo portò molti investitori a svendere le proprie industrie. Rockefeller comprese l’importanza del momento, un’occasione unica per acquistare le industrie di raffinazione concorrenti. Nel 1870, usando metodi di guerra commerciale poco ortodossi, assai lontani dalla morale “puritana” che ostentava di seguire, unificò le migliaia di piccole Compagnie della Pennsylvania fondando la società per azioni Standard Oil Company del New Jersey. Con la vendita delle azioni, Rockefeller riuscì ad ottenere nuova liquidità e poté acquistare le aziende concorrenti in svendita. All’inizio del 1872, nel pieno della depressione, Rockefeller ebbe il coraggio di andare controtendenza realizzando una serie di grandi fusioni industriali allo scopo di raggiungere il predominio nella raffinazione del petrolio. Costituì allo scopo un Consorzio che prese il nome di South Improvement Company.
Fu la vicinanza alla ferrovia a dare a Rockefeller la grande occasione: la società si accordò segretamente con le Compagnie ferroviarie, già organizzate in monopolio, per ottenere ribassi nei noli per i grandi quantitativi di petrolio da spedire. La Standard Oil divenne in breve tempo l’industria di raffinazione più forte del mercato americano, arrivando a controllare, alla fine degli anni Settanta, il 90% della capacità di raffinazione degli Stati Uniti. A quell’epoca pressoché tutto il petrolio consumato nel mondo era americano, e delle 36 milioni di tonnellate di petrolio prodotte nelle raffinerie americane ben 33 provenivano dagli impianti della Standard Oil. Per attraversare i mari il petrolio viaggiava allora sui velieri, all’inizio dentro i fusti poi in cisterne. La Standard aveva la propria rete di rappresentanti che battevano in lungo e in largo l’Europa e l’Asia, e un proprio servizio di informazioni e di spionaggio per scoprire in anticipo le iniziative delle società concorrenti e dei governi. All’occorrenza i mercati, come quello cinese, furono inondati di lampade a prezzi stracciati o addirittura gratuite per indurre la popolazione ad acquistare l’olio illuminante. In questo modo la Compagnia strangolava i concorrenti.
All’inizio degli anni Ottanta Rockefeller aveva il controllo di quaranta diverse società che gestiva attraverso la Standard Oil Trust: gli azionisti delle varie società si limitavano ad accordare la loro “fiducia” (trust) a un direttorio di nove membri che di fatto gestiva la holding. In altre parole, si trattava di un sistema per cui una società “madre” capogruppo controllava un certo numero di società “figlie” mediante il possesso di partecipazioni azionarie. La Standard teneva in amministrazione fiduciaria i titoli per conto dei piccoli azionisti delle varie società, che si limitavano a riscuotere i dividendi. In questo modo aggirava le leggi che disciplinavano la libera concorrenza e nessuno poteva accusare legalmente la Standard di possedere e controllare direttamente altre società.
In questo periodo quasi tutti gli Stati ricorsero al protezionismo, espressione della concorrenza internazionale fra i capitali e della lotta per il controllo del mercato mondiale. La politica del libero scambio fu messa da parte per i prodotti agricoli quando ne apparvero più a buon mercato dall’oltremare, poi, a poco a poco, il protezionismo si estese anche all’industria. Il capitalismo dei monopoli doveva difendere il mercato interno contro l’invasione delle merci estere per proteggere la base dei suoi sovraprofitti monopolistici. Al protezionismo ricorsero la Germania (1879), la Russia (1881), l’Italia (1887), gli Usa (1890), la Francia (1892). Solo l’Inghilterra, ormai esportatrice più di capitali che di merci, restava fedele al liberismo.
Parallelamente gli imperialismi emergenti si atteggiavano ad una politica “antimonopolistica” al fine non di bloccare il processo di centralizzazione avviato dai monopoli nazionali all’interno dei singoli Stati, ma per opporsi alla penetrazione dei capitali stranieri. Un esempio è fornito dal cosiddetto “Sherman Act” statunitense, una legge federale del 1890 per contrastare la formazione di cartelli, trust e monopoli che le imprese costituivano per evitare la concorrenza e la caduta dei prezzi di vendita. La legge dichiarò “illegali” i trust e gli accordi tendenti a frenare il commercio e la produzione, considerati un “attentato alla libertà del commercio”! Era il trionfo dell’ipocrisia: il puritanesimo americano non poteva ammettere che la libera concorrenza è in realtà soltanto una tappa nello sviluppo del capitalismo, un mezzo in mano ai più forti per eliminare i più deboli! Non poteva confessare che sotto il capitalismo il monopolio è ineluttabile! Di fatto la legge non pose alcuna limitazione alle società di possedere azioni in altre aziende, e questo consentì un’ondata di fusioni e un aumento delle concentrazioni. La conseguenza sarà quella di far ricadere i costi di questa politica neo-mercantilista sui lavoratori, che non potranno usufruire di eventuali abbassamenti dei prezzi.
Quando all’inizio del Novecento il petrolio in Pennsylvania si esaurì, gettando la regione nella crisi, i pionieri sciamarono a decine di migliaia verso gli Stati del Sud, che in breve si ricoprirono di torri di trivellazione. Importanti ritrovamenti vi furono nel Kansas, nel Texas, in Luisiana ma soprattutto in California. Questo Stato, con 73 milioni di barili (il 22% della produzione mondiale), diverrà il maggiore produttore statunitense. Con la scoperta dei nuovi giacimenti nacquero nuove Compagnie: in California la principale era l’Unocal, l’unica grande Compagnia che era riuscita a sottrarsi all’abbraccio mortale della Standard Oil; nel Texas nel 1901 fu costituita la Gulf Oil e nel 1902 la Texas Company (la futura Texaco), la quale, grazie all’appoggio di uomini politici texani, acquisì molte concessioni e assumerà un ruolo di primo piano nel campo della ricerca e della produzione.
Nel 1910 la Standard Oil della famiglia Rockefeller regnava su un impero sconfinato: commercializzava l’84% del greggio Usa e raffinava 35 mila barili di petrolio al giorno; distribuiva l’80% della produzione di cherosene domestico; aveva il monopolio delle forniture dell’olio lubrificante alle ferrovie; era proprietaria di oltre la metà dei vagoni cisterna che viaggiavano in America; disponeva di una flotta di cento navi, quasi tutte a vapore; era padrona di svariate banche e di 150 mila chilometri di oleodotti.
La stampa cominciò a battere la grancassa di lesa “libera concorrenza” accusando addirittura i monopoli di controllare il governo attraverso corruzioni e scambi di favori. Furono rispolverate le leggi anti-trust con la creazione di una Sezione speciale di controllo, che nel 1906 imbastì un nutrito numero di processi contro la Standard sulla base della legge Sherman. Nel 1911, dopo sette anni di indagini, di ricorsi in appello e di rinvii, la Corte Suprema di giustizia decretò che entro sei mesi la Standard era obbligata a dividersi dalle altre società da essa controllate. Sull’onda emotiva della sentenza il Congresso varò una nuova legge antimonopolistica.
Ma anche questa volta la conseguenza fu un rafforzamento delle imprese monopolistiche. Bastarono due mesi a Rockefeller e soci per parare il colpo. L’impero fu frammentato in più società gestite da prestanome: la prima e più importante, con quasi metà degli asset complessivi, fu la ex Standard Oil del New Jersey che si chiamò Exxon, destinata a diventare l’emblema stesso della potenza petrolifera americana; la seconda, con il 10% del valore patrimoniale totale, fu la Standard Oil di New York (la futura Mobil). A queste si affiancarono la Standard Oil della California (la futura Socal), la Standard Oil dell’Indiana (che assumerà il nome di Amoco), la Continental Oil (che si chiamerà Conoco), la Standard Oil dell’Ohio, ecc. Alla resa dei conti, le nuove aziende, pur avendo consigli di amministrazione autonomi, mantennero i rispettivi mercati e marchi di fabbrica; anzi, la frammentazione della vecchia holding spinse le singole società a svecchiare il gruppo dirigente e a diventare più aggressive sui mercati. Rockefeller incentivò la sua politica di espansione mondiale e puntò innanzitutto verso l’America del Sud (Messico, Venezuela) utilizzando tutti i mezzi leciti e illeciti nei confronti di proprietari privati e di governi per mettere le mani sulle terre in odore di petrolio.
John D. Rockefeller vivrà felicemente fino all’età di 98 anni, padrone di un impero ramificato in tutti i settori, dalle banche alla politica, orgoglioso simbolo della fortuna costruita da un oscuro contabile, e di cui l’imponente Rockefeller Center di Manhattan a New York rappresenta la potenza visibile e il vivo insegnamento di come la libera concorrenza porta al… monopolio!
Lo sviluppo dell’elettricità assestò un colpo fatale al mercato del petrolio da illuminazione. Ma se un mercato si chiudeva, un altro si apriva. Nel 1907 l’impero di Rockefeller era stato salvato da quello nascente dell’industriale Henry Ford, dai cui stabilimenti cominciavano ad uscire le prime automobili in serie: la Standard Oil si convertì alla benzina. Le prime macchine erano destinate non alla città ma alla grande produzione agricola in sostituzione della trazione animale (le macchine agricole erano ancora azionate da tiri di 40-50 cavalli!). I solchi dei campi furono aperti dai primi trattori a benzina con il marchio Ford. Come l’elettricità si rivelerà perfetta per l’illuminazione, così il petrolio troverà il suo sbocco naturale nel settore automobilistico, il cui boom fu fenomenale: negli Usa le immatricolazioni passarono da 8 mila nel 1900 a 900 mila nel 1910. Lo stesso sviluppo si ebbe nei paesi più avanzati d’Europa: nel 1914 in Francia circoleranno 700 mila veicoli a motore. L’avvento del motore a combustione interna farà della benzina il prodotto principale della produzione delle raffinerie, insieme al gasolio, che cominciava a trovare utilizzo nelle caldaie, nei camion, nei treni e nelle navi.
All’alba del XX secolo, con lo sviluppo mondiale dell’industria e del capitalismo, la corsa alla nuova fonte di energia, che si rivelerà non soltanto molto più economica del carbone ma anche più efficiente e meglio rispondente alle esigenze dell’industria moderna, si trasformerà ben presto in una sfida senza quartiere tra i maggiori imperialismi.
2. Il petrolio in Russia
In Russia la raffinazione del petrolio era iniziata fin dal 1820 a Baku, nell’Azerbaigian russo, dove l’esistenza di pozzi di petrolio era nota a partire almeno dal XVII secolo, ma l’industria era primitiva, i pozzi scavati a mano e la produzione scarsa. Lo sfruttamento intensivo dei giacimenti non cominciò che negli anni Settanta dell’Ottocento, quando il governo russo aprì le porte all’iniziativa privata. Le concessioni messe all’asta dallo zar finirono all’inizio nelle mani di ricchi affaristi tartari e armeni, che si arricchirono rapidamente e dilapidarono i loro profitti in palazzi e banchetti. Le condizioni di lavoro degli operai tartari e georgiani, servi o lavoratori liberi che fossero (uno zio di Stalin era tra essi), erano spaventose: trattati come bestie, preda dell’alcol, venivano selvaggiamente repressi dai cosacchi ogni volta che tentavano di ribellarsi alle loro miserabili condizioni.
A partire dal 1873 a dare il primo impulso all’industria petrolifera russa furono i Nobel, svedesi emigrati a San Pietroburgo e che vantavano legami con lo zarismo. Possedevano immense concessioni e numerose raffinerie collegate alla ferrovia mediante oleodotti: il petrolio era trasportato attraverso la Russia fino a Riga, sul Baltico, e da qui in Svezia. A Baku operavano anche i fratelli Rothschild, banchieri francesi grandi esportatori di capitali in Russia. Nel 1886 avevano acquistato dei giacimenti di petrolio e fondato la “Compagnia petrolifera del mar Caspio e del mar Nero” per la distribuzione del kerosene russo. Nel 1893 i loro capitali servirono a finanziare la costruzione di una ferrovia che collegava Baku al porto di Batum sul mar Nero. Batum era allora uno dei porti più importanti del mondo (qui si sarebbero fatte le ossa il giovane Stalin e altri capi bolscevichi). Il greggio a mezzo di navi petroliere veniva trasportato da Batum fino al porto di Trieste, dove i Rothschild possedevano una raffineria. Anche i Nobel si associarono all’operazione in cambio di azioni della loro Compagnia cedute ai Rothschild.
Nel 1888 le società dei Nobel e dei Rothschild, che costituivano un vero e proprio fronte russo del petrolio, avevano una produzione pari all’80% di quella del gigante americano Standard Oil. Presto la Russia comincerà ad esportare il suo petrolio in Europa mettendo a rischio la leadership americana.
(continua http://www.international-communist-party.org/Partito/Parti358.htm#Petrolio)