Una doppia inutilità: votare oppure astenersi
Commentare i risultati delle elezioni è costume alquanto diffuso in Italia. In tempi di mondiali potrebbe essere paragonato alla semplicità ed incoerenza con le quali molti appassionati criticano le scelte del selezionatore della nazionale calcistica. In entrambi i casi infatti, in un diluvio di commenti ed opinioni superficiali si fatica non poco ad avvistare qualcosa di intelligente. Una buona eccezione a questo stato di cose è quanto hanno scritto i Clash City Workers. Questi giustamente evidenziano in apertura come il successo del Partito Democratico targato Matteo Renzi sia giunto assolutamente inaspettato, almeno per quanto riguarda la dimensione che ha assunto la vittoria. Le piazze semi-vuote ai comizi del Boy Scout di Rignano ed i sondaggi reperibili anche nelle ultime due settimane prima del voto sotto forma di corse ippiche, lasciavano presuppore che il Movimento 5 Stelle fosse in gran recupero e potenzialmente molto vicino al Pd. Lo spoglio delle schede nella notte di domenica ci ha quindi consegnato uno scenario semplicemente non ipotizzato alla vigilia. Cosa questa poderosa iniezione di legittimità per il governo Renzi possa determinare dal punto di vista politico lo tratteremo in un futuro articolo. Qui invece ci concentreremo solamente sul dato dell’affluenza alle urne. Questa, il 25 maggio, si è fermata al 58,7%. Un risultato che per essere inquadrato correttamente merita di essere letto in prospettiva comparata. Ci sembra importante evidenziare che: a) in Italia, nonostante un calo di 7,7 punti percentuali, la partecipazione elettorale continua ad essere tra le più elevate a livello continentale, dato che solamente in Belgio e Lussemburgo (dove peraltro il voto è obbligatorio) e a Malta si sono avute percentuali più elevate; b) il trend di diminuzione che dal 1979, ovvero della prima elezione, aveva sempre accompagnato il rinnovo del Parlamento Europeo è stato, a livello continentale, arrestato (la partecipazione totale è infatti passata dal 43,0% del 2009 al 43,1% del 2014); c) questo risultato è stato conseguito nonostante la diminuzione dei votanti in ben 17 Paesi ed il perdurante completo disinteresse che colpisce i nuovi Stati membri dell’Est (ad esempio, solo il 13,7% degli aventi diritto in Slovacchia ha marchiato la propria scheda elettorale), potendo essere spiegato dall’aumento della partecipazione in alcuni, demograficamente significativi, Paesi dell’Ovest (Germania +4,6%; Francia +2,9%; Regno Unito +1,5%; Spagna +1%); d) nei Paesi maggiormente colpiti dalla presente crisi economica, la propensione a recarsi alle urne è stata contradditoria, dato che la partecipazione è cresciuta in Grecia (+5,6%) e Spagna (come già visto), mentre è diminuita in Portogallo (-2,3%) ed Irlanda (-6,0%), evidenziando come non esista una chiara relazione tra queste due variabili. Ricapitolando brevemente, la decrescita della partecipazione in Italia deve essere trattata come un fattore rilevante sia per la dimensione che ha assunto sia per il confronto con gli altri Paesi europei maggiormente simili, dove invece si è avuta un’inversione di tendenza. Il fatto che si sia votato nella sola giornata di domenica, a dispetto di cinque anni fa quando i seggi restarono aperti anche il lunedì, può aiutare a spiegare una parte di questo calo, che in generale riguarda la disaffezione e lo scollamento della società dalle élites politiche. Un allontanamento che deve essere presumibilmente interpretato, per quanto si trattasse di decidere i rappresentanti italiani in Europa, anche con la presenza a Palazzo Chigi del terzo governo consecutivo non direttamente eletto dai cittadini. Giungendo così alla straordinaria contraddizione di una legge iper-maggioritaria, dichiarata inoltre incostituzionale dalla Corte, incapace di garantire quella coerenza tra scelte degli elettori e formazione del governo che veniva assunto come elemento determinante per giustificare i molti elementi di disproporzionalità presenti.
Se quella appena offerta è una cartolina, più o meno corretta, della partecipazione elettorale in Italia ed in Europa, compito certamente più arduo è fornire una lettura politica del galoppante tasso di astensionismo che colpisce l’Italia. Al riguardo abbiamo visto scritto di tutto. Alcuni hanno sommato i non-votanti ai sostenitori dei Cinque Stelle, giungendo alla strabiliante conclusione che il partito anti-austerity è maggioritario nel Paese; altri hanno semplicemente sottolineato come il Pd debba fare i conti con la vera prima forza del Paese, ovvero il partito dell’astensione (sic!), altri ancora hanno favoleggiato di una situazione idilliaca, o quasi, per le loro presunte istanze rivoluzionarie (il sic qui sembra ampiamente sprecato!!). Certamente una dettagliata discussione sulla necessità o meno di recarsi alle urne giace lontano dai presupposti di questo articolo. Tuttavia, alcune brevi note possono essere richiamate: a) l’astensionismo odierno si presenta come un fenomeno dai chiari connotati sociali e generazionali, dato che la non partecipazione al voto è più alta tra i meno istruiti, nelle coorti di età più giovani e negli strati sociali inferiori. Questo determina una sinistra omogeneità sociale tra elettori ed eletti, evenienza che nei decenni passati era stata sfidata dall’allargamento del suffragio; b) nessuna forza organizzata con qualche capacità mobilitativa ha fatto campagna per il non-voto, che perciò deve essere considerato un atto puramente individuale, o comunque, anche quando comportamento collettivo, limitato a cerchie molto ristrette di attivisti e conoscenti, assolutamente incapaci di attrarre consenso; c) il singolo atto individuale, sia questo barrare la scheda oppure disertare la cabina elettorale, ha la stessa, nulla, capacità di cambiare lo stato di cose presenti. Sostenere il contrario sarebbe infatti legittimare la visione liberale che considera, al contrario, le preferenze individuali capaci di avere una loro forza quando sommate vanno a formare la volontà collettiva. Questa naif rappresentazione del circuito politico non solamente non prende in considerazione il differente grado di influenza e potere che individui dalle diverse risorse (economiche, mediatiche, relazionali) possono avere nel processo, ma inevitabilmente si scontra con l’approccio olistico, ampiamente presente nel pensiero marxiano, nel quale invece il risultato finale rappresenta qualcosa di maggiore e soprattutto diverso dalla somma delle singole volontà. Questo non solamente perché l’analisi si sposta dal singolo individuo a settori più ampi della società, ovvero le classi, ma anche perché le strutture organizzate e gli assetti istituzionali contano. Paradossalmente, nel negare tutto questo il pensiero liberale e quello ascrivibile all’area dell’autonomia mostrano una straordinaria consonanza.
In conclusione, possiamo dire che il fenomeno dell’astensionismo, per i tratti che ha assunto, si presenta oggi non tanto come una forma di de-legittimazione della struttura esistente, ma come l’immediato ed apparente portato dell’apatia e della de-politicizzazione che attraversa la nostra società. Non votare, inteso come atto individuale, non ha alcun valore. Così come non dispone di alcuna forza barrare un simbolo sulla scheda elettorale. Niente esiste infatti, in politica, fuori dalla sfera dell’organizzazione. Chiedersi poi se una forza strutturata ed in grado di raccogliere consenso debba o meno presentarsi alle elezioni è quesito che meriterebbe trattazione estesa e critica. Ci sembra tuttavia superfluo addentrarsi in simili disquisizioni, quando continua a rimanere oscuro a molti l’irrinunciabile necessità di dotarsi di un’organizzazione politica degna di tal nome.
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