I presunti effetti (reali) dell’abrogazione dell’articolo 18
Ed eccoci all’ennesimo fracassamento di palle sull’abolizione dell’ennesimo articolo 18. Per alcuni è la rovina dell’Italia, per altri la salvezza. Proviamo a vedere che cosa succederà di sicuro. Sfatando così i vari miti.
1° mito: il fattore di produzione lavoro è troppo rigido, “è impossibile licenziare” quando serve.
Questa è la stronzata più comune e, ovviamente, la più idiota. Non a caso esce tipicamente dalla bocca del piccolo imprenditore.
La realtà è che, a fronte di esigenze tecnico-produttive dell’azienda, si può da sempre licenziare senza problemi, e l’articolo 18 non c’entra nulla in questo. In caso di esubero di personale, il licenziamento è giustificato da motivo oggettivo, e dunque pienamente legittimo. Se invece il problema è il particolare comportamento del dipendente, tale da rendere impossibile il proseguimento del rapporto di lavoro, allora sussiste il giustificato motivo soggettivo.
Questa è la legge, dunque le lamentele sembrano infondate. In realtà non lo sono, solo che mascherano qual’è il vero problema. Il problema non è la rigidità del lavoro, ma il fatto che si vuole abbassare il costo del lavoro. E per farlo, ci sono tre modi: abbassare il salario nominale, abbassare il salario reale mediante l’inflazione, aumentare lo sfruttamento a parità di salario. Questo è quello che si vuole fare con la lagna dell’articolo 18. Si vuole la possibilità di ricattare il lavoratore e di poterlo licenziare in qualunque momento, non solo quando non si comporta con la “normale” diligenza prevista dall’attività lavorativa, ma anche quando si rifiuta di obbedire a qualsiasi ordine gli venga impartito dal padrone. Ordine che può essere di qualunque genere, anche illegale.
E’ facile immaginare quello che succederà: quello che già succedere per tutta quella parte di popolazione operaia esclusa dalla tutela dell’articolo 18, cioè libero arbitrio assoluto del padrone. Ma di quello che succedere a livello più “macro”, ne parliamo nel prossimo mito da sfatare.
2° mito: l’abolizione delle tutele porterà maggiore occupazione.
Questo mito sembra più intelligente del primo, ma è solo perché chi lo dice sembra più intelligente dei primi.
Per quello che abbiamo detto prima, l’abolizione dell’articolo 18 produrrà in un tempo medio una ulteriore compressione del prezzo del lavoro, i salari, in tutte le direzioni: meno soldi, maggiore sfruttamento. Nelle fantasie degli economisti, questo significa che diminuendo il prezzo del lavoro se ne aumenterà il consumo, essendo diventato più appetibile. Si immaginano curve di domanda e offerta fatte più o meno in questo modo:
La funzione blu è l’offerta di lavoro, mentre quella arancione è la domanda di lavoro, e sono entrambe quantità in funzione del prezzo. Secondo i sostenitori di questo mito, noi ci troveremmo a causa dei “lacci” giuridici rappresentati dall’articolo 18 in un punto di squilibrio tra le due curve, che ho segnato con il punto sulla curva blu. Non potendo licenziare a raffica e dunque costringere il salario a scendere, la quantità di lavoro richiesta al salario “gonfiato” è minore di quella che si potrebbe occupare a salario più ridotto, che coincide con il punto di incrocio delle due curve.
Tutto molto bello, ma le cose non stanno così, non sono semplici funzioni lineari o polinomiali. Le curve di domanda e offerta di lavoro non sono affatto in questo modo nella realtà, ma assomigliano molto di più a queste:
Fig 2: Situazione di quasi occupazione totale |
Sono cioè delle sigmoidi e derivate di esse. Esse cioè esprimono la realtà del sistema produttivo: domanda e offerta non sono casuali, ma determinate dal grado di produttività del lavoro sociale. Cioè, dalla vecchia cara e miscompresa legge del valore marxiana. In altri termini, sia gli imprenditori che i salariati hanno termini assai più risicati di contrattazione di quello che si pensa. Al di sotto di un certo salario, la sussistenza diventa rapidamente sempre più difficile, e presto impossibile: l’offerta di lavoro, al di sotto del salario “minimo”, crolla rapidamente, al di sopra di questo quasi tutta la popolazione operaia si rende disponibile a lavorare. La stessa cosa per la domanda di lavoro: essa è determinata in prima istanza dal grado tecnico della produzione, dalla produttività del lavoro e dunque dal fabbisogno di lavoro. Oltre ad un certo punto, anche se il lavoro fosse gratis, non c’è più domanda; sotto ad un certo punto, anche se il lavoro costasse all’infinito, ci sarà sempre bisogno.
La situazione di figura 2 mostra una situazione di bassa disoccupazione, il cui salario d’equilibrio è solo un’effetto della vera causa che tale equilibrio genera: la tecnologia produttiva riesce ad assorbire quasi tutta la popolazione operaia presente.
Le cose, oggi, non stanno così. La produttività del lavoro ha fatto in modo che per la produzione non sia più necessaria una popolazione operaia così numerosa:
Fig 3: Sovrappopolazione rispetto alle esigenze del capitalismo |
La produttività è così alta che, a parità di produzione, riesce a impiegare 1/4 in meno delle persone di prima. Per queste persone non ci sarà mai alcun modo di essere occupate, a meno che non accettino un salario che non permetterà loro di vivere comunque. A quel punto, lavorare non conviene più.
Naturalmente non ho pretesa di aver rappresentato analiticamente le reali funzioni di domanda e offerta di lavoro: le funzioni del grafico le ho inventate, modificando la sigmoide, cercando di creare velocemente due funzioni in qualche modo ragionevoli ed esemplificative.
Tutto questo a che serve allora? Perché ci si ostina con l’abolizione dell’articolo 18?
Come ho già detto, i motivi sono diversi da quelli ufficiali. Si vuole abbassare il costo del lavoro, aumentando il grado di sfruttamento e dunque il saggio del profitto. Ma si noti già che adesso come adesso, i salari sono per gran parte della popolazione al limite della riproducibilità, e per una grossa fetta sono sotto questa soglia. Ci sono alcune categorie di lavoratori a cui gli si può togliere ancora, ma non cambierà la faccenda più di tanto. Questo, ovviamente, comporterà un ulteriore calo nei consumi, con conseguente ulteriore depressione. Ma anche se così magicamente non dovesse essere, come vediamo dalla figura seguente, un aumento anche sensibile della scala di produzione dovuta alla maggiore appetibilità del mercato del lavoro italiano non provocherebbe grandi assorbimenti occupazionali:
La disoccupazione passerebbe dal 25% al 20%, e questo senza tenere conto degli effetti depressivi su detti. Insomma, è l’ipotesi fantastica.
L’unico modo di assorbire tutta la popolazione operaia sarebbe dunque che la curva di domanda cambiasse forma, cioè che la produzione abbisognasse di maggiore manodopera. Insomma, un ritorno fantastico al passato. Tutti in bottega!+
tratto da http://nix11.blogspot.it/
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