Le reti di imprese come bisogno insoddisfatto di massima centralizzazione

http://www.vita.it/static/upload/soc/social-enterprise2-680x5104.jpgPubblichiamo questo interessante articolo tratto da http://nix11.blogspot.it/ perchè la lettura ci sembra piuttosto utile per comprendere la realtà economica, sociale e politica italiana fatta di un gran numero di piccole imprese con pochi addetti; il che spiega come mai Matteo Renzi si sia inserito in tale contraddizione, specie per quanto riguarda l’articolo 18, riguardante il 57% dei lavoratori, ma solo il 10% delle imprese. 
Buona lettura
Vogliamo dire questo: cercando di obbedire alle sue stesse leggi, il capitalismo nega sempre più se stesso. Ecco la rivoluzione, è questa roba qui, e il capitalismo la compie ogni giorno e l’ha compiuta da quando è nato.
Le imprese, formando reti, in realtà non ci svelano quale sarà lo stato di cose futuro (dunque la rete di imprese come modello), bensì ci mostrano i limiti del presente (frammentazione della produzione a causa della proprietà privata, insufficiente socializzazione del lavoro), i palliativi transitori per cercare di superarlo (formo un’associazione occasionale e limitata) e quello che è il bisogno da soddisfare (serve un controllo totale su tutti i mezzi di produzione)

La concentrazione del lavoro artigianale

Agli albori della produzione industriale, il mercante-capitalista si accontentava di riunire sotto lo stesso tetto di un vecchio opificio gli artigiani-operai disposti a lavorare per lui in cambio di un misero ma “sicuro” salario. Perché mai un artigiano con bottega avrebbe voluto imboccare la strada della proletarizzazione? Ovviamente perché non ha voluto ma ha dovuto, in tutta barba delle sue personali convinzioni, il sistema ha deciso per lui: il capitalismo, come sistema maggiormente organizzato e dunque organizzato su scala più ampia, lo ha costretto alla resa e alla cooptazione in quanto “esercito” perdente la guerra dell’evoluzione. La produzione industriale permetteva di disintegrare la produzione artigianale, con le sue inefficienze, sprechi e bassissima produttività. La produzione individuale dovette per prima piegarsi alla potenza impressionante di quella collettiva (che per noi è sempre nell’accezione di collettiva organizzata), o poi sparire quasi del tutto, restando sostanzialmente delegata ai piccoli servizi.

Il sistema di macchine

Il vero gigantesco salto è stato compiuto con il vapore, che ha meccanizzato sempre più lavorazioni prima lasciate ancora all’abilità dell’operaio-artigiano. Questo non ha avuto solo conseguenze dal punto di vista tecnico (mera produttività q/t), ma anche e soprattutto dal punto di vista organizzativo: oltre un certo grado di sviluppo, la fabbrica non è più soltanto un luogo dove operai-artigiani condividono un tetto e alcune grandi strumenti di lavoro comuni (crogioli, fornaci, ecc.), ma diventa un sistema di macchine dove l’uomo è solo un’appendice (al pari del magazzino, della logistica ecc.) e spesso nemmeno la più importante.

Non è mia intenzione fare una panoramica della situazione operaia di allora né di oggi, compito per il quale oltretutto non sarei all’altezza. D’altro canto di nostalgia per bottegai e garzoni non ne ho nemmeno un briciolo, come della loro inutile maestria così poco produttiva da poter essere al servizio esclusivamente dell’aristocrazia. Qui interessa solamente sottolineare l’aspetto di trasferimento dell’intelligenza di progettazione del processo produttivo dal cervello dell’artigiano a quello della direzione della fabbrica; conseguentemente si ha anche lo stesso passaggio dalla maestria individuale (frutto del tramandamento delle antiche tradizioni e dell’esperienza personale) alla fissazione in scienza, impersonale, universalmente applicabile e trasmissibile a tantissime persone e macchine in breve tempo.
La direzione della fabbrica verticale accentra a se tutta la funzione di progettazione del sistema produttivo interno, con il supporto chiave di figure specializzate (ingegneri e gestionali) e di un apparato amministrativo prima di allora sconosciuto. Non mi invento niente di nuovo, questa roba l’ha detta e ripetuta Taylor un secolo prima di me, un tizio tutt’altro che idealista e metafisico. L’errore più comune e patetico è quello di confondere il “taylorismo” con il fordismo. Taylor non ha fatto altro che recepire e registrare la lezione che l’ormai pronto e maturo sistema di macchine stava impartendo all’umanità: se la progettazione dell’attività produttiva non è più prerogativa delle tradizioni e dell’esperienza perché esse potrebbero dirigere solo il lavoro manuale ma non un sistema di macchine (a vapore, elettriche, ecc.), allora anche l’organizzazione dell’attività di fabbrica non può più essere organizzazione umana del lavoro, bensì organizzazione scientifica del lavoro. L’ossessione per la misurazione dei tempi e metodi da parte del management, incubo dell’operaio che gli ruba ogni secondo extra-lavorativo, non è un’angheria gratuita nei confronti dell’operaio ma una necessità imposta dal sistema di macchine. Sono le macchine a determinare i tempi e i metodi della produzione, non gli operai e nemmeno il “padrone”. Naturalmente, a loro volta, il ritmo imposto alle macchine proviene non dal maggiore o minore bisogno umano di un determinato prodotto, ma dalle esigenze di valorizzazione del capitale attraverso una determinata merce. Il “taylorismo” (orrendo termine in ossequio alla brutta tradizione di attribuire la scienza al nome del suo più famoso divulgatore o creatore) rimane patrimonio della scienza e direttamente anche della scienza del management, almeno fino a che l’umanità continuerà a produrre i beni e i servizi di cui necessita attraverso l’industria); il fordismo è invece una particolare applicazione dell’organizzazione scientifica del lavoro in determinate sfere di produzione (produzione seriale di massa, logica push, ecc.).
Con il sistema di macchine generalizzato i capitalisti perdono ogni funzione nel sistema produttivo, la cui direzione è affidata al management, che è poi una specie di comitato scientifico la cui attività è in ultima istanza subordinata alla produzione di profitto, proprio come una tangente da dover pagare ogni volta agli azionisti.
Integrazione delle macchine in sistema di macchine; concentramento delle funzioni direttive nelle mani del management che organizza così l’attività di migliaia o anche milioni di operai e tonnellate di merce; estromissione dei capitalisti dalla gestione e loro relegazione a meri parassiti (il guadagno d’imprenditore diventa al 100% rendita di proprietà del capitale). Questa è il cammino che la rivoluzione ha compiuto attraverso l’evoluzione dal sistema di operai-artigiani a quella di macchine.

Distretti industriali e reti di piccole imprese

Come tutti gli organismi, anche il sistema produttivo evolve sulla base delle sfide ambientali che si trova costretto a superare. Diciamo subito che il sistema industriale è ancora basato sul sistema di macchine che ho appena descritto al paragrafo precedente. Gufi, preti e hippies dicano ciò che vogliono sulla new economy, ma la produzione materiale è ancora strutturata come un sistema di macchine più o meno autonomo e più o meno automatizzato in una produzione tanto organizzata e misurata che è possibile con relativa facilità prevedere e pianificare i flussi fisici dei prodotti necessari a soddisfare tutti i fabbisogni, anche su scala mondiale (di un proof of concept a riguardo che ho già realizzato ed è in fase di test parlerò in un prossimo articolo). Nonostante ciò, qualcosa è cambiato, anche se non è un qualcosa di sostanziale.
Una sola parola sulle esternalizzazioni delle attività “non core dei settori della old economy: l’aggregazione di enormi masse operaie all’interno di gigantesche organizzazioni, unito al periodo di prosperità capitalistica del dopoguerra e la conseguente spartizione delle “briciole” per gli operai, ha reso più difficilmente sostenibile per le aziende il mantenimento di determinati livelli salariali diretti o indiretti. Nella grandissima maggioranza dei casi dove l’outsourcing effettivamente comporta un aumento dei guadagni da parte dell’impresa appaltante, questo si ha soltanto perché l’azienda appaltatrice riesce a imporre ai suoi operai condizioni salariali enormemente più basse di quello che la grande fabbrica potrebbe fare. In altre parole, la frammentazione di diecimila operai in mille aziendine (o peggio ancora trasformando gli operai in finti piccoli imprenditori, la cui sorte è totalmente nelle mani dei capricci della casa madre e che per due soldi in più debbono lavorare come bestie) ha permesso di disintegrare ogni possibile minaccia di scioperi o forme di lotta in grado di bloccare l’intera attività aziendale. Distrutta la condizione di questa forza, si è potuto procedere al drastico abbassamento delle condizioni di vita della classe operaia.
In conseguenza a ciò, la virtù della piccola impresa è tutta qui: la maggiore facilità con cui i padroncini posso sfruttare il personale compensa a volte i più alti costi di transizione (dare disposizioni operative a un dipendente è più veloce che dover cercare, contrattare, comprare e seguire il lavoro di un esterno[1]). A questo si aggiunge che alcuni settori dell’economia possono non essere caratterizzati da significative economie di scala: di conseguenza produrre q o t*q non incide particolarmente sulla proporzione dei semilavorati o materie prime da assumere. In questi contesti la piccola impresa può addirittura essere più competitiva della grande, perché può operare allo stesso grado di produttività ma con uno sfruttamento maggiore del personale. Si tratta tuttavia di casi abbastanza circoscritti, relativi principalmente a servizi: la produzione manifatturiera presenta quasi sempre economie di scala, almeno oltre ad un certo punto e fino ad un certo punto[2].
Il distretto industriale nasce per colmare parzialmente questo divario: in zone particolari e sotto circostanze particolari, piccole imprese operanti nella filiera di una determinata tipologia di prodotto e territorialmente concentrate riescono ad aumentare la loro competitività condividendo conoscenza, infrastrutture, risorse, e più in generale organizzazione. Riescono ad avere anche maggiore accesso al credito poiché il distretto è in qualche modo un organizzazione superiore che fa sì che le singole imprese non siano altro che reparti della fabbrica complessiva che è il distretto. Per esempio, in un distretto di produzione di armi dovrebbero trovarsi concentrate tutte quelle attività che in teoria potrebbero stare racchiuse all’interno di una unica fabbrica di armi. Gioie e dolori delle imprese del distretto sono le stesse fortune e sventura del distretto intero: proprio come una fabbrica fallita licenzia tutti gli operai, un distretto fallito manda in rovina tutte le fabbriche del distretto. Un esempio tra tutti: la FIAT e il cosiddetto “indotto”, che altro non è che il distretto industriale dell’automobile di Torino.
Discorso simile per le reti di imprese, anche se il requisito di concentrazione territoriale non è sempre necessario. Una serie di imprese formano un accordo dove si organizzano per essere insieme più competitive. La cosa rilevante è che questo accordo è più che altro di tipo tecnico, e solo secondariamente di tipo economico. I contenuti rilevati di questi accordi sono quelli relativi al progetto da mettere in pratica.
Quello che qui mi preme sottolineare è che la frammentazione della fabbrica unica in diverse piccole imprese non è di per se fattore di mutazione della caratteristica del capitalismo moderno come sistema di macchine. Tantomeno è fattore di aumento della competitività, e ancora meno rappresenta un modello più efficiente dal punto di vista tecnico. Le aziende madri continuano ad operare come prima, e quelle esternalizzate che lavorano per lei di fatto sono come sue dipendenti, visto che è l’unica o la principale committente di tutto “l’indotto”. In caso di mancanza di una azienda madre o di legami con essa indeboliti, in condizioni particolari le piccole imprese cercano di organizzarsi per essere virtualmente come un’unica impresa più grande. Ma questo – e qui arrivo alla parte centrale del discorso – è un palliativo perché, se si potesse disporre liberamente di tutti i mezzi di produzione per organizzarli in modo razionale secondo lo scopo senza ostacoli dovuti a proprietà privata ecc., allora si considererebbe il tutto come un’unica fabbrica logica e si metterebbe in atto un piano di produzione comune, senza nemmeno pensare che quelle fabbriche siano imprese separate. Gli accordi di reti di imprese rappresentano un tentativo di superare i vincoli posti dallo stato di cose presente: la proprietà privata e la conseguente separazione giuridica e organizzativa delle imprese unite soltanto dalla legge del valore è derivata dallo stato mercantile dell’economia, ed è uno stato di cose che si cerca di superare con accordi oltre-impresa ma che mantengano comunque l’autonomia (cioè la proprietà privata) delle singole imprese. Si tratta dunque di ibridi applicati solo sotto determinate condizioni e con tutti i limiti derivati dall’ordinamento capitalista, che sarebbe profondamente sbagliato vedere come la “soluzione” finalmente svelata, come fanno alcuni sostenitori della p2p foundation. Il carattere a rete delle imprese è il modo transitorio che hanno a disposizione per superare il mercantilismo, e come tutte le transizioni sono tentativi dissipativi ma necessari per tentare di andare verso il futuro non potendo però rinunciare alla palla la piede del presente.
Ricollegandoci a quanto scritto precedentemente a proposito del general intellect, la rete delle imprese è un po’ come la fase in cui i neuroni usano la loro plasticità per affrontare problemi inediti che possono essere risolti solo mediante un sistema di neuroni: non avendolo a disposizione, provano a costruirlo fintanto che non ne trovano uno che funziona. A quel punto il sistema non è più plastico e si fissa in struttura. Nel caso dell’economia, le imprese possono muoversi entro i confini angusti della società presente tentando di formare un qualcosa di superiore alla singola impresa; hanno bisogno di maggiore sistema. Però non possono ancora fissarsi in struttura perché questo presupporrebbe la possibilità di disporre all’occorrenza e senza limiti di tutti i mezzi di produzione esistenti, abolendo la proprietà privata degli stessi.
Il processo necessario che porterà a questo è quello che chiamo rivoluzione.

[1] Che come ben sa chi per lavoro abbia mai dovuto gestire il lavoro di una società in appalto, è di per se la parte più impegnativa del lavoro, e per di più è lavoro del tutto improduttivo.

[2] In altri termini, quasi ovunque, c’è sempre un minimo al di sotto del quale produrre con la relativa tecnologia è troppo dissipativo e un massimo al di sopra del quale si ha un gigantismo inutile e improduttivo.

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