Sabbie bituminose: un buon affare (anche) per il pianeta?

Sono ormai molti anni che chi si occupa di petrolio sente sempre più insistentemente parlare di “deconvenzionalizzazione del mercato”, una formula forse oscura per alcuni, che in realtà vuol semplicemente dire che si estrae e si commercializza sempre meno petrolio convenzionale, o standard, come ad esempio il Brent o il Wti. Una delle ragioni è il raggiungimento del picco di produzione nei giacimenti del Mar del Nord, avvenuto nel 1999, ed in seguito, il raggiungimento del picco mondiale del greggio convenzionale. La strada obbligata che ha quindi dovuto seguire l’industria mondiale è quella di estendere le operazioni di ricerca ed estrazione a tipologie di petrolio cosiddette non- convenzionali, tra le quali le sabbie bituminose.

Le sabbie bituminose sono sostanzialmente il risultato dell’affioramento al livello del suolo di petrolio che successivamente si degrada attraverso l’azione di batteri ed agenti atmosferici. Questo fenomeno non è rarissimo, ed è presente anche in Italia, sulla costa orientale della Sicilia. Il maggior deposito mondiale di sabbie bituminose si trova però in Canada, nello stato dell’Alberta:  con circa 600.000 Km2, una superficie quasi doppia rispetto all’Italia, l’Alberta è una delle poche aree del mondo dove sia possibile la produzione industriale di sabbie bituminose su larga scala. Il giro d’affari generato dalle sabbie bituminose è enorme: nel solo 2012 lo stato dell’Alberta ha esportato oltre 55 miliardi di dollari di petrolio ed ha una produzione giornaliera complessiva di circa 2 milioni di barili al giorno. Questo giro d’affari è inoltre in rapida crescita, facilitato dall’aumento del prezzo del petrolio (almeno fino a poco tempo fa) e della relativa scarsità di greggio convenzionale. Lo stato dell’Alberta ha visto quindi esplodere l’industria estrattiva: soltanto 10 anni fa si estraeva la metà di adesso e vi sono ampi margini di miglioramento. Secondo David Biello, autore di un interessante articolo su Scientific American (vedi Le Scienze n° 541, settembre 2013) sarebbero recuperabili circa 170 miliardi di barili con l’attuale tecnologia, mentre altri 1630 sono quelli stimati come esistenti e che aspettano uno sviluppo delle capacità estrattive.

Questo sviluppo implicherebbe però un aumento molto significativo dei gas serra emessi dall’estrazione e dalla raffinazione di quella che attualmente è una delle fonti di petrolio più inquinanti in assoluto, seconda probabilmente soltanto all’estrazione di greggio pesante in California. Un tipico blocco di minerale grezzo è costituito dal 73% di sabbie, 10% argille, 5% acqua e per il restante 12% da bitume: il solo fatto che la percentuale di prodotto utilizzabile alla fine del processo di separazione sia così basso implica un immenso dispendio di energia e grandissime quantità di scarti sotto forma di laghi di rifiuti tossici, le cui dimensioni sono tali da essere visibili dallo spazio. Tutto questo processo avviene attraverso il normale lavoro di scavo in superficie, effettuato da escavatori che dopo aver eliminato la foresta ed il terreno paludoso sottostante espongono le sabbie al processo di estrazione.

C’è però anche un’altra tecnica con cui viene prodotto il bitume: grandissime quantità di acqua portata a 350° C vengono iniettate nel sottosuolo per liquefare la parte bituminosa delle sabbie ed attraverso un condotto il bitume viene convogliato per poi andare incontro alla raffinazione. Questa seconda tecnologia estrattiva comporta una quantità di emissioni di gas serra pari a circa il 250% in più rispetto alle già nocive attività di superficie e purtroppo è questa seconda tecnica che si sta sviluppando sempre più velocemente, dato che le attività di superficie non possono scavare strati di sabbie bituminose al di sotto degli 80 metri di profondità.

Volendo seguire i dati della Canadian Association of Petroleum Producers, nel 2009 le attività di profondità hanno comportato un aumento dei gas serra del 16%; da allora le attività di profondità sono cresciute e nel 2012 sono arrivate a eguagliare quelle di superficie. E’ prevedibile con facilità che in futuro questo tipo di estrazioni crescerà in volume, nonostante il forte impatto ambientale: se venisse ultimato l’oleodotto Keystone XL (vedi figura sotto) la produzione annua complessiva delle estrazioni salirebbe di circa 830.000 barili al giorno mentre la produzione totale potrebbe arrivare a 5 milioni di barili al giorno entro il 2030. In un contesto come quello attuale dove nella produzione di energia elettrica a livello globale si procede verso una sostituzione del carbone con il gas, la produzione di sabbie bituminose sposterebbe semplicemente le emissioni di CO2 da una fonte di energia all’altra.

Per calcolare esattamente quale sia il limite alle emissioni si può usare il cosidetto carbon budget, elaborato dal gruppo di scienziati guidato dal fisico Myles Allen, dell’Università di Oxford, ovverosia l’esatta definizione quantitativa dell’ammontare di CO2 che è possibile liberare in atmosfera prima che sia raggiunta la soglia critica dei 2° C in più rispetto all’era pre-industriale. Secondo lo staff di Myles Allen la stima di questa quantità si aggira intorno ai 1000 miliardi di tonnellate di emissioni entro il 2050: questo può sembrare un numero enorme, quasi inarrivabile, ma purtroppo non lo è affatto. Attualmente infatti l’umanità produce circa 35 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno, mentre la produzione globale dal 2000 al 2013 è stata di ben 250 miliardi di tonnellate: questo implica che non siamo molto lontani dalla soglia critica, che in assenza di politiche radicali, dovrebbe essere collocata all’incirca nell’estate del 2041. La International Energy Agency (IEA) nel 2010 ha analizzato il profilo di rischio costituito dalle sabbie bituminose al fine di contenere le emissioni al di sotto dei 2° C ed ha suggerito di assestare la produzione ad un livello massimo di 3,3 milioni di barili al giorno al 2035.

E’ davvero difficoltoso immaginare come sia possibile aumentare la produzione di sabbie bituminose e contemporaneamente rispettare i limiti imposti dal carbon budget: è stato calcolato che uno sfruttamento completo dei giacimenti dell’Alberta comporterebbe un aumento del riscaldamento terrestre di 0,4 gradi, circa la metà dell’effetto serra ad oggi misurato rispetto al periodo pre-industriale (stima di John P. Abraham, St. Thomas University, Minnesota) con un’emissione complessiva di ben 250 miliardi di tonnellate.

Una soluzione ci sarebbe ed è della massima semplicità: fare pace con la natura, lasciando sottoterra   le sabbie bituminose dell’Alberta, e puntando finalmente con convinzione sulle energie rinnovabili.

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