Parlare di abolizionismo carcerario è come parlare di abbattimento del capitalismo!

L’abolizionismo carcerario non riguarda un aspetto isolato del sistema sanzionatorio basato sulla reclusione carceraria. Per alcuni, tra cui io, per abolizionismo intendiamo qualcosa di più ampio del riferimento alla sola galera come groviglio di mura, sbarre, urla e secondini. Intendiamo riferirci al senso più ampio del termine per individuare e sottoporre a critica non una sola parte del sistema della giustizia criminale, ma il sistema stesso della giustizia nel suo complesso: l’ambito dell’ordinamento giudiziario e del diritto stesso.

Riteniamo questo un vero e proprio “problema sociale”, non fa parte della soluzione del “dilagare della criminalità” ma ne è una delle cause. La sua abolizione è l’unica risposta adeguata al problema medesimo.

Abolizionismo è soprattutto una prospettiva, un metodo di indagine e di ricerca, di attività concrete e militanti applicate al sistema della giustizia criminale, che si intende, via via, depotenziare e tendenzialmente abolire. Senza escludere, anzi moltiplicare, le iniziative giorno dopo giorno per sostenere la popolazione detenuta nella sua lotta quotidiana contro il carcere.

Il carcere, il sistema di reclusione basato sulla privazione della libertà, produce nella persona reclusa annichilimento, emarginazione, annullamento dell’identità e stigma indelebile. Queste afflizioni si producono anche per mezzo delle misure alternative, quelle che portano il controllo penale dal carcere al territorio di provenienza.

Il carcere è dunque l’esito del sistema penale.

Il sistema penale è parte significativa, ma pur sempre parte, di qualcosa di più grande, ossia dell’ordinamento giuridico che regola la condotta delle donne e degli uomini di una formazione sociale. Quell’insieme di obblighi e divieti, di norme coattive, del diritto imposto dalla classe dominante e sfruttatrice, per salvaguardare e riprodurre le relazioni sociali vantaggiose a se stessa. Un sistema basato sullo sfruttamento della forza lavoro utile ad accrescere il capitale investito. È insomma l’ordinamento giuridico dell’ordine capitalistico.

Poiché il carcere ha avuto la sua origine nel radicamento e nella diffusione del sistema industriale in ogni angolo del pianeta, ha dunque molto a che vedere con la nascita della classe operaia, delle sue lotte e dei suoi livelli di organizzazione; dei suoi andamenti altalenanti in termini di avanzamento e arretramento. Ha molto a che vedere con il mantenimento della condizione subalterna della classe operaia, terrorizzando e aggredendo ogni manifestazione di riscossa operaia, limitando le forme di conflitto a quelle tollerabili e innocue per la produzione, contrastando tutti i tentativi di liberazione della classe subalterna dalla sottomissione ai processi di intensificazione dello sfruttamento. Ha intralciato in ogni modo il concretizzarsi della prospettiva operaia di liberazione dal dominio capitalistico.

La critica del sistema del controllo penale e la sua soluzione, quindi, avrebbe dovuto essere affrontata dallo stesso movimento operaio organizzato. Quel movimento avrebbe dovuto mettere in discussione – e inizialmente l’ha fatto con grande energia e profondità – l’intero apparato della cosiddetta “giustizia”, poiché esercitata in ambito capitalista e a questo vantaggioso. Avrebbe dovuto combatterla perché quella “giustizia” ha avuto e avrà sempre il compito di garantire la riproduzione del sistema di sfruttamento della forza lavoro, così come del mantenimento delle classi sociali e della disuguaglianza crescente, dell’oppressione di genere e del razzismo, del mantenimento e difesa della proprietà privata per chi ce l’ha e del non accesso ad essa per chi non ce l’ha. Questa “giustizia di classe” ha operato e continua ad operare per mezzo del controllo penale che culmina nello spregevole apparato carcerario, punendo ogni deviazione dall’ordine produttivo e ogni dissenso dalla passiva accettazione dello stato di cose presenti.

Il movimento operaio avrebbe dovuto combattere e abolire il carcere, il sistema penale, l’ordinamento giuridico e il diritto, capisaldi dell’ordine capitalista. Ma ciò non è stato fatto. Al contrario, spesso, il movimento operaio si è atteggiato a difensore di quella legalità e di quella giustizia che colpiva prevalentemente, e quasi esclusivamente, il proletariato.

Questa involuzione ben rappresenta la deriva che ha portato le organizzazioni operaie nelle braccia del capitale e del mantenimento dello stato di cose presenti, con l’adesione passiva all’equivoco che afferma essere produttive le attività legali e parassitarie quelle criminali, ideologia smentita dalle cronache, ma che impregna le politiche penali e costituisce una difficoltà in più per affermare una cultura abolizionista.

Su questo equivoco si è affermata una eccessiva attenzione nel campo del diritto ed esaltazione a valori quali produttività, prestazione, sacrificio, merito, utilità e così via.

Va dunque ripreso daccapo il percorso di una prospettiva abolizionista. Abolizione del carcere, del sistema penale, dell’ordinamento giuridico, del diritto e del sistema statuale che ne impone coattivamente il rispetto, allo stesso modo che fosse un apparato privato della classe dominante.

Questi i passaggi inevitabili per l’abolizione del capitalismo.

Altre modalità di relazioni sociali, libere dalla dittatura del mercato, del capitale, della merce, del profitto, dello sfruttamento, della proprietà e per la piena affermazione delle necessità e desideri umani produrranno altre regole ma sottoposte alle aspettative umane, non come avviene oggi dove i bisogni umani sono sottoposte e schiacciati dalle regole dell’ordinamento esistente.

Sul piano storico, da qualunque punto di osservazione lo si guardi, il carcere si rivela fallimentare in ogni aspetto: nel rispondere alle esigenze di difesa sociale e persino catastrofico nel proposito dichiarato della riabilitazione del reo. Analoga catastrofe si registra nella prevenzione generale, se con questa davvero si intende una sorta di messaggio dissuasivo o deterrente rivolto ai cittadini in generale.

Il carcere e il sistema penale che lo utilizza, può essere assimilato a un crimine contro l’umanità. Difatti se decodifichiamo i segni contenuti della ritualità ossessiva del carcere vediamo quanto questi siano controproducenti nel trasmettere modelli di comportamento validi per una convivenza sociale partecipe e solidale. Quei codici trasmettono: egoismo, individualismo, competizione, deresponsabilizzazione, esaltazione degli errori altrui per sottolineare i non-errori propri, infantilizzazione, doppiezza, ipocrisia, insincerità per non essere puniti, servilismo, e tutti gli altri che vorrà aggiungere chi ha provato quell’inferno.

Non diversamente operano le misure alternative, non diverse qualitativamente dal carcere, che si orientano agli obiettivi di incapacitazione, invalidazione, interdizione, poiché di diverso hanno solo il fatto che spostano nel territorio le funzioni espletate nel carcere e i presupposti del «modello giustizia».

Quest’ultimo, come è noto, attribuisce alla pena dei principi di restituzione autoritaria, secondo cui il carcere è la giusta attrezzatura che risponde “proporzionalmente” – secondo la teoria, ma non più nella pratica – alla gravità dell’offesa e alla violazione dell’ordine.

La pratica ci dimostra con abbondante casistica che è spesso la severità della pena a suggerire la presunta gravità del reato, e non viceversa, in un universo simbolico che si ritiene collettivamente condiviso ma che tale non è.

[Mathiesen, Perché il carcere?]

Tratto da: https://contromaelstrom.com

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