Africa – La coppa che non si vede

Nonostante tutti gli sforzi, è sicuramente innegabile che la Coppa d’Africa non abbia lo stesso appeal delle omologhe competizioni di Europa e Sud America e non potrebbe essere altrimenti. Da un lato per quella atavica disorganizzazione che attanaglia il continente nero, soprattutto se alle prese coi grandi eventi in cui, tanto per fare un esempio, è possibile dimenticarsi la chiavetta coi file degli inni nazionali delle squadre che avrebbero inaugurato il torneo (quindi anche la formazione di casa), e dall’altra perché, almeno fino a pochi decenni fa, le uniche squadre africane che riuscivamo a vedere e conoscere erano quelle qualificate ai mondiali e al pari di quelle asiatiche (salvo rare eccezioni) erano destinate al ruolo di cenerentole dei propri gironi, ma a differenza delle altre riuscivano ad accalappiarsi maggiori simpatie.

Sarà stato forse per le divise sgargianti, per quella gioiosa anarchia che i calciatori esprimevano in campo e che ha fatto, grazie all’epidermica avversione per il tatticismo esasperato di matrice europea (se non propriamente italiana…) una sorta di giardino dell’Eden per gli appassionati del calcio tutto cuore, polmoni e, nei limiti, anche fantasia; magari sarà stato per le incredibili doti atletiche che cozzavano atrocemente con quelle tecniche col risultato che i brillanti risultati ottenuti dalle nazionali giovanili non venivano mai ripetuti dalle selezioni maggiori, o più semplicemente per una versione calcistica del “fardello dell’uomo bianco”, che dietro una simpatia di facciata nasconde se non un vero e proprio “razzismo liberal”, quantomeno una convinzione di supposta superiorità. Fatto sta che fino all’avvento della generazione di Weah & co. e le prime edizioni del torneo trasmesse da TMC, che ci hanno dato una qualche forma di familiarità col movimento calcistico africano, pur contando su diversi appassionati in Europa, la maggior parte degli stessi spesso si invaghiva più che per i risultati sul campo, per quelli ottenuti (a dir la verità, più inseguiti che realmente ottenuti loro malgrado) nell’agone politico internazionale da popoli che decidevano di rompere le catene del giogo coloniale e diventare artefici del proprio destino, creando così automaticamente un’affascinante commistione nell’immaginario delle persone con una maggiore sensibilità sociale.

Così anche adesso, nonostante diverse nazionali del continente nero abbiano fatto dei veri e propri passi da gigante, consolidandosi anche a livello mondiale, con tutto il rispetto per i vari Salah, Mahrez, Aubameyang, Suleiman ecc., quando ho seguito una partita del Burkina Faso ad esempio o del Congo, l’ho fatto più per via della simpatia nei confronti dei loro uomini simbolo in politica che non per quelli calcistici, quindi per Sankara e non per Traore, per Lumumba e non per Kabananga. Perché in fin dei conti il torneo passa, ma l’Africa, coi suoi conflitti, quei confini tracciati quasi al righello, simbolo di un retaggio coloniale che dopo aver spolpato il continente in passato, ha gettato anche un’ipoteca per il futuro, con cui devono fare i conti anche il calcio e lo sport in generale.

Basti pensare ad esempio che nella partita inaugurale della competizione tra il Gabon e la Guinea Bissau tra i 22 scesi in campo non ce n’era nemmeno uno che giocava nel continente africano (e non si tratta di un fatto isolato), o alle vicende dell’Algeria del pallone d’oro africano Ryhad Mahrez, una delle formazioni accreditate come favorite alla vittoria finale, che non ha superato nemmeno il primo girone e si è trovata alla vigilia della sfida contro lo Zimbawe (a sua volta squalificato dalle qualificazioni ai Mondiali del 2018 per non avere pagato lo stipendio di 67 mila dollari all’ex allenatore José Claudinei Georgini) senza le divise di gioco, prima che una società di Singapore gliele offrisse.

Certo, in una nazione relativamente ricca in paragone al contesto continentale, come il Gabon che è il sesto maggior produttore di petrolio dell’Africa (nonostante il recente crollo del prezzo del greggio), piuttosto che alla “classica” maniera occidentale, fatta di sfruttamento intensivo delle risorse e denaturali e degli uomini, avviene nella versione cinese più interessata a costruire infrastrutture, con paventate ricadute di lavoro e benessere per i cittadini locali, almeno sulla carta… Un chiaro esempio è lo stadio d’Angondjè o dell’Amicizia di Libreville: 40 mila posti di capienza, costruito nel 2010 con i soldi del governo e dalla “Shanghai Construction General”, che ha costruito anche l’impianto di Oyem, nel nordest del Paese, il quale ha ospitato la maggior parte delle partite del gruppo C. La struttura è stata inaugurata pochi giorni prima del via (il 9 gennaio), ma conclusa in extremis proprio il 16, poche ore prima del primo incontro che avrebbe dovuto ospitare! Anche perché consapevole dei proibitivi costi di manutenzione che con ogni probabilità destineranno lo stadio all’incuria nel giro di breve tempo, la popolazione si era opposta ai lavori e aveva minacciato di boicottare l’inaugurazione, perché l’impresa cinese non aveva mantenuto la promessa di portare l’energia elettrica in tutta la città, ma naturalmente di quest’ultimo aspetto non vi è quasi notizia. Infatti, in nome della “politica dei grandi eventi”, già ampiamente sperimentata recentemente in Brasile, sono pressoché sparite dai radar dei media le notizie delle violenze che stanno dividendo il paese a partire dalle scorse elezioni politiche che hanno visto la rielezione a presidente di Ali Bongo Ondimba con uno scarto di 5564 voti sul concorrente Jean Ping (che aveva invitato i suoi sostenitori a boicottare la Coppa d’Africa lasciando vuoti gli stadi per protesta) e hanno avuto come corollario il bombardamento del quartier generale dello sconfitto durante la campagna elettorale e l’assalto al parlamento nazionale di Libreville da parte dei seguaci dello sconfitto.

Ali è figlio di Omar Bongo, storico padre e padrone del Paese dal 1967 al 2009, anno della sua morte, quando gli succedette appunto Ali e anche il giorno dell’inaugurazione del torneo, non troppo lontano dallo stadio, si combatteva nelle strade della capitale, ma sappiamo bene che in questi casi la libera e corretta informazione deve essere sacrificata sull’altare dello show-business e di tutti quei soldi che sono serviti per l’organizzazione e che sarebbero potuti essere destinati alla popolazione, in un momento difficile, dovuto al crollo del costo del petrolio che contribuisce fatalmente a rendere ancora più incandescente nell’intera regione dell’Africa Occidentale che vede molti paesi alle prese con problemi: Angola, in crisi economica, Burundi, con la guerra civile a bassa intensità, Camerun e Ciad, per via della guerra contro Boko Haram attorno al lago Ciad, Guinea Equatoriale, a causa della crisi petrolifera e politica nel Paese, Repubblica Centrafricana, con il rinfocolarsi delle violenze tra le milizie cristiane e quelle musulmane, Congo Belga e Congo Kinshasa, per il riaccendersi di vecchie ruggini.

Oltre al danno la beffa, perché originariamente la competizione si sarebbe dovuta disputare in Libia, ma per via dell’ennesima impresa tardo-coloniale delle potenze occidentali che ha portato allo smembramento de facto del paese nordafricano, si decise che sarebbe stato più sicuro disputarla appunto nel Gabon. Verrebbe da pensare: da una guerra civile conclamata a una in nuce. A dimostrazione, l’ennesima, di quanto, nonostante un torneo interessante, con tanti buoni prospetti di calciatori, molte sorprese tra cui l’eliminazione prematura dei campioni in carica della Costa d’Avorio alle prese col ricambio generazionale e quella dell’Algeria, di due derby del Maghreb (Tunisia- Algeria e Marocco-Egitto) tirati e intensi, del Ghana dei fratelli Ayew, dell’Egitto di Hector Cuper e del quarantaquattrenne portiere Essam el-Hadary, del ritorno in coppa dell’Uganda dopo quarant’anni, le partite più importanti per il destino dell’Africa si giochino lontano dai campi da calcio e che nonostante lo squilibrio delle forze in campo e i pronostici contro, confidiamo ancora nell’arrivo di un bomber, o meglio ancora di una gioco di squadra collettivo che riesca a vincere l’importante derby contro corruzione, povertà e ingerenze esterne.

Giuseppe Ranieri

da http://www.sportpopolare.it/

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