L’Egitto e la rivoluzione che verrà

Quando il 25 gennaio 2011 migliaia di persone scesero in piazza – al Cairo, così come nelle altre principali città egiziane – per protestare contro il regime di Hosni Mubarak, i media mainstream fornirono con celerità e precisione la propria versione di quanto stava accadendo. Evidenziando la natura anti-autoritaria delle proteste e situando la ‘libertà’ nel regno del mercato, quello che andava in scena era – almeno stando alla loro versione – uno scontro tra un regime dispotico e crudele da un lato e giovani altamente educati che sognavano un processo di liberalizzazione politica ed economica dall’altro.

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, questa rappresentazione puntava a negare l’anima sociale di una rivoluzione politica. In particolare, racchiudendo temporalmente e spazialmente un processo rivoluzionario che si era sviluppato per oltre un decennio negli ormai famosi 18 giorni di piazza Tahrir si puntava ad aderire alla logica dell’evento singolo. Ovvero, si negava il processo di crescita molecolare e di reciproca fertilizzazione tra le varie lotte che avevano puntellato l’ultimo decennio di Mubarak al fine di minare l’ipotesi che vi fosse qualcosa da ottenere dopo la caduta del dittatore. Il punto ultimo e massimo di quella che veniva descritta come un’improvvisa esplosione di passione e partecipazione politica non era così una rivoluzione sociale, ma un ‘mero’ cambio di regime politico. Il passato veniva ri-scritto al fine di ingabbiare il futuro.

Il 25 gennaio 2016, esattamente cinque anni più tardi, una logica del tutto simile è stata proposta per comprendere la sparizione ed il successivo tragico ritrovamento del giovane ricercatore friulano Giulio Regeni. Decontestualizzato dal processo di contro-rivoluzione in atto nel paese a partire dal colpo di stato guidato dal feldmaresciallo al-Sisi nel luglio del 2013, il suo omicidio non è stato accostato a quello – tanto per citare un esempio tra i molti possibili – di Shaimaa El-Sabbagh, militante socialista morta tra le braccia del marito il 25 gennaio 2015 mentre portava dei fiori in piazza Tahrir per commemorare il quarto anniversario della rivolta egiziana. Al contrario, molti giornalisti e studiosi hanno provato a tratteggiare un parallelo tra Giulio Regeni e Valeria Solesin, la giovane studentessa rimasta uccisa nella strage del Bataclan a Parigi. Entrambi, a detta loro, vittime della crudeltà umana e del fanatismo.

Non è assolutamente il nostro scopo sminuire la tragedia che ha colpito la famiglia di Valeria. Ci mancherebbe altro. Tuttavia, rimaniamo basiti di fronte a chi paragona i due fatti, evidentemente alquanto diversi. E tutto questo ci porta a dire con forza che Regeni non è stato ucciso perché conduceva ricerche sulla limitata libertà di espressione nell’Egitto di al-Sisi. Non è stato eliminato perché portava avanti uno studio sui brogli elettorali che il regime ha perpetrato per poter disporre di un Parlamento docile. Giulio Regeni ha tragicamente perso la vita mentre studiava ed analizzava le mobilitazioni degli ambulanti nel pre e post 2011. La sua morte perciò rientra a pieno titolo in quella lunga scia di sangue che il mancato successo della rivoluzione egiziana, la sua incapacità di andare oltre la destituzione di Mubarak, ha innescato come inevitabile contraccolpo.

Bene fa la famiglia di Giulio a ricercare verità e giustizia. Bene fanno tutti coloro che nei più vari e disparati modi cercano di mantenere alta l’attenzione su questa vicenda. Al tempo stesso però, ci sentiamo di dire che tutte le campagne che possono essere messe in campo crescono in forza e credibilità se si legano ad un progetto di ri-elaborazione di cosa sia stato il processo rivoluzionario egiziano, dei suoi parziali successi, ma anche dei suoi limiti. Soprattutto, anche se l’inverno della contro-rivoluzione picchia forte adesso, paralizzando le strutture rivoluzionarie che avevano preso vigore nei mesi successivi alla caduta di Mubarak, tutto il sostegno deve essere diretto all’opposizione sociale e politica che combatte il regime di al-Sisi. Alla rinascita, come obiettivo minimo, di un forte e combattivo movimento di lavoratori e disoccupati. Dopo tutto, Giulio Regeni è stato vittima del fallimento della rivoluzione egiziana e della sua passione come studioso per le lotte dei lavoratori. Chi ne volesse onorare la memoria deve quindi trarre gli insegnamenti che la storia ha lasciato e farne buon uso in futuro. In tal senso, nelle prossime settimane dedicheremo un ampio approfondimento alla lunga rivoluzione egiziana, che sembra toccare proprio in questi mesi il suo punto più basso, ma che potrebbe aver sedimentato molto più in profondità di quanto adesso non risulti visibile.

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