Risposta alla domanda: che cos’è l’autonomia? La Convivialità di Ivan Illich, parte seconda

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2. Pars construens: lavoro, obsolescenza e convivialità

La riflessione sul lavoro di Illich è trasversale a tutta l’opera e rielabora in modo originale concetti di indubbia provenienza marxiana. Egli distingue due modi di parlare di lavoro. Si può usare il verbo o il sostantivo, le persone lavorano oppure hanno un lavoro. La seconda espressione è quella tipica della società industriale. “L’uso nominalistico della lingua esprime rapporti di proprietà: la gente parla del lavoro che ha.” (pag. 119)

Egli distingue anche quattro differenti generi di lavoro: quello dell’artista e dell’artigiano, l’opera, l’ergon greco. Quello del manovale, la fatica, il labor, il ponos greco. Poi c’è il lavoro moderno dell’operaio, il trabajo, il travail, che hanno la stessa origine del termine “travaglio” in italiano e derivano da un verbo latino, tripaliare, che indicava uno specifico metodo di tortura. Esso è il complemento del lavoro di una macchina, ad esempio di una catena di montaggio. Infine c’è il lavoro dell’impiegato e del burocrate, dove è l’uomo stesso ad essere parte di una macchina sociale che viene prodotta dalla coordinazione delle funzioni dei suoi ingranaggi umani.

Ma aldisotto di tutti questi modi di lavorare c’è una serie di attività che mandano avanti la vita in quanto tale, quella che Marx chiamerebbe la riproduzione sociale. Questo è il terreno originario dell’autonomia umana che viene costantemente espropriata dal monopolio radicale.

Gli uomini possiedono la capacità innata di curare, confortare, spostarsi, apprendere, costruirsi una casa e seppellire i propri morti. Onguna di queste capacità risponde a un bisogno. I mezzi per soddisfare questi bisogni non mancano fintantoché gli uomini dipendono da ciò che possono fare da sé e per sé, ricorrendo solo marginalmente a professionisti. Tali attività hanno un valore d’uso, ma non necessariamente hanno assunto valore di scambio: il loro esercizio, spesso, non si definisce culturalmente come lavoro. (pag. 79)

Un rapido sguardo, prima di entrare nel merito della proposta conviviale di Illich, sulla quinta dimensione. Essa oggi ci è particolarmente familiare nel suo disequilibrio: è l’obsolescenza. La necessità di questa società di innovare continuamente, la caccia frenetica alla novità, che deve essere intrinsecamente migliore. “Il rinnovamento è intrinseco a un modo di produzione industriale accoppiato a un’ideologia di progresso.” (Pag. 101)

L’innovazione continua porta alla rapida obsolescenza dei prodotti e alla necessità di rinnovarli costantemente per affermare la propria superiorità. “Gli individui, ma anche i Paesi, si classificano socialmente secondo l’anzianità degli strumenti e dei beni. […] Il livello di obsolescenza del loro consumo indica esattamente dove si trovano sulla scala sociale.” (pag.102)

La quinta dimensione dell’equilibrio è la storia, il diritto di ogni uomo ad avere un passato al quale rifarsi per capire il presente e progettare sensatamente il futuro. Una dimensione della quale oggi siamo quasi del tutto privi, grazie a differenti processi di degrado, come l’obsolescenza dei prodotti e “l’attualismo” mediatico che vive in un eterno presente senza storia e senza futuro. Vi è una accelerazione continua, un continuo protendersi in avanti verso un fantomatico “star meglio”, un progresso i cui frutti non arrivano mai e sono rimandati indefinitamente. L’uomo stesso viene polverizzato da questa spinta.

Una società impegnata nella corsa allo ‘stare meglio’ sente come una minaccia l’idea stessa di una qualsiasi limitazione al progresso. È così che l’individuo che non cambia oggetti o terapie conosce il rancore del fallimento e chi ne cambia scopre la vertigine della carenza. Ciò che ha lo nausea, e ciò che vuole avere lo fa soffrire. Il cambiamento accelerato produce su di lui gli stessi effetti che l’assuefazione a una droga […] La dialettica della storia va in frantumi. Il rapporto tra il presente e la tradizione svanisce. (pag. 103)

In questo passo viene espresso perfettamente il frutto del superamento della soglia nelle cinque dimensioni: l’insoddisfazione costante dell’uomo moderno e la sua dissoluzione in una miriade di bisogni effimeri e indotti. Alimentati dalla megamacchina, la complessa struttura della società industriale, siamo privati di tutto ciò che è importante.

La specie umana sarà forse avvelenata dall’inquinamento; ma può anche dissolversi e sparire per mancanza di linguaggio, di diritto e di mito. Il monopolio radicale degrada l’uomo e la polarizzazione lo minaccia; ma lo shock del futuro può disintegrarlo. (pag. 105)

Terminata la pars destruens, è tempo che ci rivolgiamo alla pars construens del pensiero di Illich, non meno ricca e stimolante, a differenza di quello che accade in tanti autori che criticano radicalmente lo stato di cose presente (fra cui, per certi versi, lo stesso Marx). La proposta di Illich ha il nome che dà il titolo al libro: è la società conviviale. Si tratta della società in cui si realizza pienamente l’autonomia umana. Essa si contrappone direttamente al monopolio industriale e alla gestione tecnocratica della vita umana: “Intendo per convivialità il contrario della produttività industriale. […] Alla minaccia di una apocalisse tecnocratica, io oppongo la visione di una società conviviale.” (pagg. 28 e 30)

Il progetto è dunque quello di limitare lo sviluppo seguendo le direttrici delle cinque dimensioni: ci vuole una società che rispetti l’ambiente e la natura, che permetta l’autonomia umana, che diffonda e distribuisca in modo più omogeneo possibile il sapere e il potere e che permetta un rapporto con la dimensione storica.

La questione centrale ruota intorno alla tecnologia e alla produzione: il concetto chiave è quello di strumento. È attraverso il rapporto che l’uomo ha con lo strumento che prende forma un certo tipo di società. “Lo strumento è inerente al rapporto sociale. […] Nella misura in cui io padroneggio lo strumento, conferisco al mondo un mio significato; nella misura in cui lo strumento mi domina, è la sua struttura che mi plasma e informa la rappresentazione che io ho di me stesso.” (pag. 43)

Mentre nel monopolio radicale esso tende a sostituire l’uomo, nella società conviviale invece esso ne aumenta le capacità senza rimpiazzarlo. “L’uomo ha bisogno di uno strumento con il quale lavorare, non di una attrezzatura che lavori al suo posto.” (pag. 28)

Quando la macchina si sostituisce all’uomo, avviene una curiosa inversione di ruoli per cui l’uomo diviene il servitore della macchina, un po’ come avviene in Matrix. L’uomo diventa un mero utente, o al massimo un operatore, ignaro dei meccanismi profondi di ciò che gli fornisce beni e servizi, ma addestrato in modo da sapere come farsi erogare dal sistema ciò di cui ha bisogno. È così che egli si adegua agli standard imposti dalla produzione industriale.

È un ceninaio di anni che cerchiamo di far lavorare la macchina per l’uomo e di educare l’uomo a servire la macchina. […] Per un secolo l’umanità si è dedicata a un esperimento basato su questa ipotesi: lo strumentopuò rimpiazzare lo schiavo. Ora vediamo chiaramente che, impiegato per siffatti scopi, è lo strumento che fa dell’uomo il suo schiavo. […] il fallimento del grande sogno di razionalizzazione progressiva porta a concludere che l’ipotesi è falsa. (pag. 27)

Quella che viene spacciata per razionalità, ovvero l’organizzazione sociale nella quale ci troviamo a vivere, è in realtà la peggior forma di irrazionalismo che si sia mai vista nella storia, con l’uomo atomizzato e in balia di forze determinate da saperi che non comprende, in primis i saperi scientifici e le loro scoperte. Qualcuno potrebbe pensare che la ricerca scientifica e lo sviluppo industriale nel senso di un monopolio radicale sono inseparabili, ma una simile posizione è frutto della più gretta ignoranza storica, dato che la società industriale doveva ancora svilupparsi ai tempi di Cartesio e Galileo, per non parlare di Euclide e Archimede. Esistono dunque differenti modi di servirsi del progresso scientifico.

C’è un uso della scoperta che conduce alla specializzazione dei compiti, alla istituzionalizzazione dei valori, alla centralizzazione del potere: l’uomo diviene l’accessorio della megamacchina, un ingranaggio della burocrazia. Ma c’è un secondo modo di mettere a frutto l’invenzione, che accresce il potere e il sapere di ognuno, consentendo a ognuno di esercitare la propria creatività senza per questo negare lo stesso spazio di iniziativa e di produttività agli altri. (pag. 14)

Quest’ultimo è appunto l’uso conviviale della scienza, un uso che preserva l’autonomia dell’uomo invece di distruggerla. Da qui scaturisce la natura dello strumento conviviale, che è l’unico veramente razionale, poiché “[...] genera efficienza senza degradare l’autonomia personale, non produce né schiavi né padroni, estende il raggio d’azione personale.” (pagg. 27-28) “Lo strumento è conviviale nella misura in cui ognuno può utilizzarlo, senza difficoltà, quando e quanto lo desideri, per scopi determinati da lui stesso. L’uso che ciascuno ne fa non lede l’altrui libertà di fare altrettanto; né occorre un diploma per avere il diritto di servirsene. Tra l’uomo e il mondo, è conduttore di senso, traduttore di intenzionalità.” (pag. 44)

Secondo Illich questa forma conviviale dello strumento è l’unica che possa permettere una sopravvivenza dell’uomo senza un suo annichilimento sotto il peso dell’organizzazione sociale, quando le possibilità tecniche permesse dallo sviluppo della scienza si sono dispiegate. “Nell’epoca della tecnologia scientifica, solo una struttura conviviale dello strumento può unire sopravvivenza ed equità.” (Pag. 32)

Grazie allo strumento conviviale è possibile delineare i contorni di una società differente, la società conviviale appunto, che è il regno della autonomia umana, dove l’uomo può realizzare se stesso, invece che accumulare indefinitamente beni e servizi in un frenesia indotta che al contrario lo priva di qualunque capaictà decisionale e lo lascia in balia di tecnici ed esperti, abdicando alla sua stessa umanità. “La società conviviale è una società che dà all’uomo la possibilità di esercitare l’azione più autonoma e creativa, con l’ausilio di strumenti meno controllabili da altri, La produttività si coniuga in termini di avere, la convivialità in termini di essere.” (pag. 42)

Tuttavia la società conviviale, come già specificato, non è il ritorno all’età della pietra, né ad un regime preindustriale. Al contrario si tratta di una società postindustriale, che costituisce quindi un superamento del monopolio della produttività industriale, una dismissione del monopolio, non una cancellazione totale dell’industria. “La ricostruzione conviviale suppone lo smantellamento dell’attuale monopolio dell’industria, non la soppressione di qualunque produzione industriale. […] Esige una considerevole riduzione di trattamenti obbligatori, ma non impedisce a nessuno di farsi insegnare o curare se lo desideri. Una società conviviale non è una società congelata.” (pag. 100)

Dunque l’uomo che vive nella società conviviale è l’uomo autonomo, capace di autodeterminarsi attraverso le proprie scelte, le quali trovano nella dimensione comunitaria gli strumenti per realizzarsi; la soddisfazione dei bisogni, la riproduzione sociale avviene attraverso una infinita attività creatrice che produce direttamente il soddisfacimento, e non come corrispettivo di un lavoro finito, al quale viene corrisposto una erogazione di beni e servizi provenienti da una megamacchina sociale che lo trascende completamente.

Per comprendere in che senso l’uomo che vive in una società conviviale è libero, è autonomo, basta contapporlo al suo opposto, ovvero il carcerato.

 L’uomo non vive solo di beni e servizi, ma della libertà di modellare gli oggetti che gli stanno attorno, di conformarli al suo gusto, di servirsene con gli altri e per gli altri. Nei paesi ricchi, i carcerati dispongono spesso di beni e servizi in quantità maggiore delle loro famiglie, ma non hanno voce in capitolo riguardo al come le cose sono fatte, né diritto di interloquire sull’uso che se ne fa: degradati al rango di consumatori-utenti allo stato puro, sono privi di convivialità. (pag. 28)

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