11 agosto 1944: l’insurrezione di Firenze
“Un partito politico di classe è quello che non crea la situazione, ma sa sfruttare la situazione. Il partito politico di classe è quello, non che organizza e fa, secondo la sua convenienza, avvenire i fatti nello svolgimento della vita di un paese, ma è quello che non si lascia mai sorpassare dai fatti, è quello che li prevede e sa guidarli verso una meta, è il partito che ha questa meta da raggiungere”
Umberto Terracini, XVII Congresso Nazionale del PSI, Livorno 15-21 gennaio 1921
Alcuni giorni fa abbiamo ricevuto da un nostro affezionato lettore il contributo che andiamo proponendo qui di seguito. Lo consideriamo infatti uno scritto di assoluto interesse non solamente per la dettagliata e minuziosa ricostruzione degli eventi che portarono, esattamente settant’anni fa, alla liberazione di Firenze dal dominio nazista e fascista, ma anche per le numerose analogie che vi si possono trovare, fatti ovviamente tutti i distinguo del caso, con la situazione politica odierna. In apertura però, al fine di consentire un più chiaro inquadramento di vicende squisitamente locali nei tellurici movimenti globali, o quantomeno europei, di quella fase storica, vogliamo fornire alcune note. Nel periodo che corre, indicativamente, dall’ 8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 in Italia non si è solamente combattuto, come si è soliti invece ricordare, un conflitto tra due eserciti stranieri (da una parte i tedeschi e dall’altra gli Anglo-Americani), ma anche una guerra civile. Inoltre, ed è questo l’aspetto più interessante ai nostri occhi, settori non esigui del proletariato italiano hanno provato a trasformare quest’ultima in una rivoluzione sociale. Ovvero, in un movimento che non mirasse esclusivamente a cambiare la forma di regime al potere, tramite un sostanziale ritorno alla forma liberale pre-1922, nella visione ben espressa da Benedetto Croce del fascismo come “parentesi storica”, ma puntasse anche e soprattutto ad un generale sovvertimento dei rapporti di classe esistenti. Scoprire che questo ambizioso e generoso progetto fosse strenuamente osteggiato da numerosi attori nazionali ed internazionali ci sembra considerazione alquanto banale. Evidenziare però che solamente il Partito Comunista Italiano guidato da Palmiro Togliatti giocò un ruolo di assoluta ambiguità nella vicenda, risulta assai più rilevante. Molto è stato detto in sede storiografica sulla possibilità reale di avere un processo rivoluzionario in Italia nella piccola finestra temporale che abbiamo indicato in apertura. Noi tendiamo ad esprimere alcune perplessità al riguardo, ritenendo la presenza fisica di un moderno e numericamente consistente esercito straniero un elemento di assoluta problematicità. Altri, e qui non possiamo che consigliare la lettura di Fedeli alla Classe di Francesco Giliani, hanno invece espresso un punto di vista diverso. Quello che però rimane più rilevante è certamente sottolineare come l’atteggiamento parassitario adottato dal PCI non fosse in alcun modo dettato da valutazioni di quest’ordine, ma rispondesse esattamente alle direttive provenienti da Mosca. Il Cremlino infatti, nel gioco di spartizione globale con Londra e, soprattutto, Washington, aveva accettato l’influenza americana nell’Europa Occidentale in cambio di un simile trattamento per tutta l’area ad est di Vienna. L’obbedienza togliattiana a questo diktat non ci sembra debba essere in alcun modo considerata una debolezza personale del leader del PCI, ma rientra al contrario organicamente in quello processo che aveva visto la graduale trasformazione della III Internazionale in un plenum funzionale alle esigenze nazionali russe. Per questo, se proprio si vuole muovere un capo d’imputazione a Togliatti, dobbiamo tornare al periodo 1924-25, quando questi dette vita insieme ad Antonio Gramsci ad una frazione centrista in seno al PCd’I, sostanzialmente estromettendo la parte sinistra del partito guidata da Amadeo Bordiga. Al riguardo, sembra doveroso ricordare le parole pronunciate da quest’ultimo:
“[…]Si cade così in una sfera d’attrazione da cui non si potrà più uscire e nel circolo di quelli che sono gli amanti a volta a volta conquistati dalla Maga e che non si libereranno più dal suo influsso, pigramente vivendo alla sua corte”.
Amadeo Bordiga, Convegno di Como, Maggio 1924
Fuori di metafora, il soggetto sottointeso è ovviamente il PCd’I, mentre la Maga è la III Internazionale trasformata in organo del Partito Comunista Russo. Inoltre, e qui concludiamo la nostra introduzione, non può sfuggire come i comunisti italiani, acconsentendo passivamente al cosiddetto processo di bolscevizzazione, venissero non solamente ad accettare il primato incontrastato di una forza nazionale, ma rinegassero la funzione storica che immaginavano di incarnare. Questa, li aveva portati prima ad organizzarsi in frazione in seno al PSI e poi in vero e proprio partito, seguendo le lucide parole di Umberto Terracini pronunciate in quello che può essere considerato il congresso di nascita del PCd’I.
Riappropriamoci dell’insurrezione di Firenze
Firenze, prigioniera sul terreno politico del renzismo e del blocco sociale che lo sostiene, non può di certo essere libera sul terreno della memoria storica. E come il renzismo è solo l’ultima tappa di un processo, così lo svuotamento del significato e del ricordo della liberazione del 1944 di Firenze è un processo che viene da lontano. Svuotata dai propri connotati rivoluzionari e sociali, la Resistenza diventa semplice ed esclusiva lotta democratica. Diventata esclusiva lotta democratica, essa finisce per appartenere a tutte le classi e a tutti gli schieramenti politici. Una Resistenza di tutti e quindi per definizione non partigiana. Non più storia delle classi sociali oppresse, essa diventa storia “della nazione” e delle sue “istituzioni”. Uno Stato che mai ha combattuto il fascismo suona la fanfara – quando proprio deve – ad ogni anniversario della Resistenza. Quest’ultima, diventata routine ufficiale, perde di interesse per quelle stesse classi sociali che ne furono le protagoniste. Ed è alla fine di questo processo che i peggiori revisionismi fascisti possono rialzare la testa.
Così da qualche anno assistiamo allo scempio di Casapound che raggiunge Trespiano per celebrare i franchi tiratori fascisti della battaglia per Firenze, mentre il Pdl va a omaggiare “i veri liberatori” della città al cimitero americano. Come tra queste destre non esiste un vero e proprio confine, così queste due posizioni storiche si compenetrano profondamente. Entrambe, infatti, partendo dal presupposto di una Firenze “conquistata” dall’esterno, cancellano la Resistenza come fenomeno autonomo di protagonismo popolare.
In verità l’avanzata degli Alleati su Firenze viene ancora oggi catalogata tra gli appassionati di tattiche militari come “lenta” e goffa: sbagliato assaltare frontalmente la città e per di più farlo a passo di lumaca. Ma ciò che appare come ottusità dell’alto comando alleato, rispondeva in realtà ad una precisa volontà politica: evitare l’insurrezione cittadina. Perché il nuovo potere non sorgesse dalla canna del fucile partigiano, il regime nazi-fascista non doveva crollare rovinosamente, ma dissolversi permettendo così un passaggio di potere “controllato”.
Le stesse scelte militari naziste furono dettate prima di tutto dalla necessità di impedire l’insurrezione cittadina. La tattica dei “franchi tiratori” voluta da Pavolini, il segretario nazionale del ricostituito Partito Fascista, non poteva avere alcuna efficacia contro un esercito regolare. E in effetti non era diretta contro le truppe alleate, ma prima di tutto contro la popolazione insorta e la guerriglia partigiana. Nell’estate del 1944, quindi, spinte provenienti da fronti apparentemente opposti convergono tutte in una sola direzione: impedire l’insurrezione popolare o comunque limitarne la portata.
Dopo la caduta di Roma, è naturale che tutte le attenzioni fasciste ricadano su Firenze. Il fascismo toscano annovera tra le proprie file esponenti della corrente repubblichina più fanatica e intransigente. Non a caso, il già citato Pavolini – segretario nazionale del Partito Fascista della Repubblica di Salò – è fiorentino. E proprio a Firenze la tortura nazi-fascista trova uno dei punti più alti, con l’azione della Banda Carità e la sua fitta rete di spie e sicari.
La battaglia per il controllo di Firenze cade poi in uno dei punti più alti del protagonismo partigiano, l’estate del 1944. Scrive il maresciallo Kesserling, comandante in capo delle truppe naziste in Italia:
“Dopo l’abbandono di Roma si ebbe un inasprimento dell’attività partigiana in misura per me affatto inattesa. Questo periodo di tempo può essere considerato come la data di nascita della “guerra partigiana illimitata”[1].
Gli fa eco il fascista Graziani:
“praticamente il Governo della Repubblica sociale controlla, e solo fino a un certo punto, la fascia piana a cavaliere del Po, tutto il resto è in mano virtualmente ai ribelli che riscuotono il consenso di larghi strati della popolazione[2]”
Pavolini giunge in città nel giugno del 1944 con l’obiettivo di organizzare il terrore fascista, prima, durante e dopo la liberazione di Firenze. E così avviene: 15 luglio viene catturato e ucciso il gappista Elio Chianesi; lo stesso giorno viene arrestato Fanciullacci che per le torture si getta da una finestra; il 17 luglio in Piazza Tasso i fascisti aprono il fuoco sulla folla durante un rastrellamento uccidendo tra gli altri un bambino di 4 anni; il 23 luglio 17 membri della Resistenza sono fucilati alle Cascine. Tutto ciò non turba le correnti più attendiste in seno al Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (Ctln), le quali propendono per un passaggio a freddo del potere dalle autorità fasciste al comando alleato. Nella seduta del Ctln del 10 luglio
“la Dc dopo aver esposto la situazione venutasi a creare dopo l’arresto di varie personalità fiorentine che il Comando tedesco considera come ostaggi chiede che il C.L.N. si esprima circa l’opportunità di sospendere ogni azione od atto che possa dare pretesto al Comando tedesco di mettere in esecuzione quanto ha minacciato nel comunicato la cittadinanza fiorentina[3]”
Questa richiesta di sospensione unilaterale di fatto dell’azione militare del CTLN c’entra poco con il tema degli ostaggi. E’ in atto una trattativa per un passaggio “pacifico” di poteri dai fascisti a un governo provvisorio presieduto dall’ambiguo generale Somma. Un modo per cambiare tutto lasciando intatte le fondamenta su cui reggono i poteri forti della società italiana.
Tali trattative però muoiono sul nascere. Non solo per i pesanti trascorsi fascisti di Somma, ma anche perché la dinamica insurrezionale è ormai inevitabile. Essa vive di moto proprio: le brigate partigiane stringono sempre di più sulla città; la Lanciotto dal Casentino, le Rosselli dal Mugello e da Montespertoli, la Sinigaglia dal Casentino. In città le Squadre d’Azione Patriottica (Sap) arrivano a inquadrare 2800 attivi. Esse sono animate da una forte componente operaia che dagli scioperi del marzo 1944 non è più rientrata nei ranghi della disciplina di regime.
Nella seduta del 21 luglio tutte le correnti del Ctln sono quindi costrette a ratificare l’insurrezione:
“il C.T.L.N deve con qualsiasi mezzo rendersi padrone di fatto della città prima dell’arrivo degli alleati[4]”.
E i poteri del Ctln assomigliano subito a quelli di un autogoverno della città. Vengono mandati ispettori a sorvegliare le Banche e a requisire le aziende di padroni collaborazionisti. Il Ctln arriva ad autofinanziarsi con l’emissione di titoli a proprio nome. Tutto questo però non scalfisce l’attendismo degli alleati i quali anzi rallentano la propria avanzata. Questo è l’incontro tra un inviato del Ctln e un maggiore inglese:
“Tre ore di colloquio fra Niccoli e un maggiore non portano nulla di concreto. (…) Niccoli chiede all’ufficiale quali sono le intenzioni degli Alleati. Il maggiore (…) può dire solo che gli alleati considerano Firenze “città aperta” e che, per evitare danni e vittime, sarà occupata soltanto dopo che i tedeschi se ne saranno andati. Niccoli replica che il CTLN ha ordinato al Comando partigiano di iniziare l’insurrezione (…) e che quindi si conta sul rapido intervento degli alleati (…). A sentire parlare di insurrezione (l’interprete ha appena finito di tradurre la frase di Niccoli) il maggiore inglese si rabbuia. La sua risposta è secca. (…) Insomma i partigiani devono starsene tranquilli e lasciar fare la guerra agli alleati[5]”
Anche i nazisti rassicurano sul fatto di considerare Firenze “città aperta” e che quindi non la trasformeranno in un teatro di guerra per evitare danni all’ingente patrimonio artistico. Ma il tema della “città aperta” ha ben poco a che fare con la sensibilità artistica degli occupanti. I nazisti lo usano per provare ad addormentare parte della popolazione, per cullarla nell’illusione che non sia necessario insorgere, che Firenze non verrà toccata dal conflitto.
In verità, solo una pronta insurrezione sarebbe garanzia di salvaguardia della città e del suo patrimonio artistico.
A differenza di quanto accaduto a Roma, Firenze non può essere dichiarata e non sarà dichiarata“città aperta”.
Non vi è alcuna possibilità che si ripeta un passaggio a freddo dei poteri dal vecchio regime agli Alleati, magari sotto l’attenta regia della curia, così come avvenuto nella capitale. Per i nazifascisti risparmiare Firenze significherebbe facilitare l’insurrezione cittadina e lasciare mano libera al Ctln. Così il 29 luglio i nazisti intimano a sorpresa lo sfollamento di una vasta zona attorno all’Arno. Diventa a quel punto evidente la volontà di minare i ponti sull’Arno e farli saltare. Gli sfollati del centro sono circa 150.000: uno scenario che rende tecnicamente più difficile l’insurrezione popolare. Il 3 agosto poi, i nazisti dichiarano il coprifuoco totale: non si può più circolare per strada. Senza staffette, il Ctln perde il contatto tra i vari punti della città destinati a insorgere. Nonostante questo, il 3 agosto parte delle Sap tenta un’insurrezione prematura e assalta il Ponte della Carraia per provare a salvarlo dall’esplosione. Invano: tra il 3 e il 4 agosto le mine naziste distruggono tutti i ponti di Firenze, tranne il Ponte Vecchio, e una buona fetta del centro storico. I fascisti, che per vent’anni avevano inondato questa città di retorica di plastica dantesca e di orgoglio fiorentino, non muovono un dito.
Nemmeno gli alleati sembrano particolarmente interessati ad una Firenze “città aperta” e quindi libera di insorgere senza difficoltà. Proprio in quei giorni hanno lanciato volantini che invitano i cittadini a non formare barricate, per non far perdere tempo al passaggio delle truppe alleate:
“E’ vitale per gli alleati che le truppe possano attraversare Firenze senza perdita di tempo per completare la distruzione delle armate tedesche che si ritirano verso Nord[6]”.
I nazisti si attaccano a questa frase per giustificare la necessità di far brillare i ponti sull’Arno. Si tratta di una falsità: i ponti sono stati minati ben prima del lancio di questo volantino. Rimane un fatto, però, che la frase del volantino alleato risulti di un’ingenuità disarmante e sospetta.
Con il centro di Firenze completamente squarciato dalle mine, i tedeschi si ritirano sulla riva settentrionale dell’Arno. Il 4 agosto entra da Porta Romana la prima divisione Alleata insieme alla brigata Sinigaglia. Vista l’impossibilità di passare l’Arno, l’insurrezione cittadina diventa anche sul piano strettamente militare l’unica via per mettere in difficoltà i tedeschi. Eppure l’attenzione del comando Alleato continua ad essere rivolta tutta in una direzione: disarmare i partigiani e impedire un’azione autonoma del Ctln. Così racconta Gracco:
“Verso sera, dopo aver sostenuto violenti e sanguinosi scontri, ci raggiungeva Potente col Comando della Divisione “Arno” (…). Firenze era alla vigilia della sua insurrezione. La notte sul 5 i responsabili furono convocati a Porta Romana: un colonnello della Polizia Militare dell’VIII Armata doveva farci urgenti comunicazioni. (…) Entrò nella stanza il colonnello inglese. (…) Egli ci comunicò che il quartiere generale della sua Armata aveva disposto l’immediato disarmo e scioglimento delle nostre brigate partigiane. Vi fu nella stanza un attimo di sbalordimento, poi ognuno volle gridare la sua protesta, la sua indignazione: i tre quarti di Firenze erano ancora in mano nemica, il popolo di Firenze stava preparandosi ad insorgere, reparti della Lanciotto Ballerini e della Caiani si erano da giorni infiltrati nella zona settentrionale della città per l’attacco decisivo; il Paese aveva appreso dalla radio che a Firenze erano entrati i garibaldini alla testa delle truppe alleate (…). Come era possibile, allora, che il maresciallo Alexander ritenesse urgente e necessario sciogliere la prima grande unità organica di partigiani da lui incontrata (…)?”[7]
Il giorno dopo i partigiani in assemblea respingono la richiesta di disarmo e al contrario decidono di impegnarsi nelle operazioni di rastrellamento dei franchi tiratori che seminano il terrore in città. In queste operazioni muore il comandante Potente. L’11 agosto mattina suona la “Martinella”, la campana della Torre di Arnolfo in Palazzo Vecchio. E’ il segnale usato dal Ctln per lanciare l’insurrezione. Anche la parte settentrionale della città insorge. Eppure gli alleati “non varcarono il fiume quel giorno e nemmeno quello successivo[8]”. Viene concesso il permesso di farlo solo a un nucleo di 100 partigani, per prendere contatto con gli insorti. Ma, come racconta Gracco, è l’intera divisione Sinigaglia a passare l’Arno:
“Gli inglesi che, dopo pressanti richieste, avevano acconsentito a 100 partigiani soltanto di passare il fiume, dimenticarono di contarci…..[9]”
I nazisti hanno abbandonato la linea di difesa sull’Arno, ma ne hanno ricostituita un’altra lungo il Mugnone. Così per giorni, 1000 membri delle Sap e le brigate partigiane fronteggiano praticamente da sole le truppe tedesche impedendo loro la riconquista del centro. Una delegazione del comando alleato varca l’Arno solo per recarsi dal Ctln e comunicargli una lista di personalità dell’aristocrazia fiorentina a cui il Ctln dovrebbe cedere tutti i poteri. Come sindaco provvisorio viene proposto dagli Alleati, in pieno accordo con il Governo centrale di Roma, il conte Guicciardini: un vecchio arnese della classe dominante italiana, complice, come tutti i suoi simili, a vario titolo del fascismo.
Qualche parola in più va detta sul fenomeno dei “franchi tiratori”: i cecchini fascisti che imperversarono per la città in quei giorni provocando diversi morti tra la popolazione civile e tra i partigiani stessi. Si stima che fossero tra i 100 e i 300. Diversi erano giovani fanatici. Si nascondevano tra le case e con fucili di precisione colpivano a sorpresa chiunque si trovasse per strada in quel momento. I fascisti glorificano ancora questo fenomeno per dimostrare una vitalità del regime e l’esistenza di una resistenza popolare di parte fascista.
Come già detto, la tattica dei franchi tiratori non aveva alcuna efficacia contro l’avanzata di un esercito regolare. Essa era pensata prima di tutto contro i partigiani e contro la popolazione civile fiorentina. Pavolini aveva promesso il ritorno a un “fascismo delle origini”. Così fu in effetti. I fascisti si congedarono da Firenze svolgendo il ruolo con cui erano nati: come squadrismo della morte rivolto prima di tutto contro il movimento di massa. Non sappiamo, poi, come si possa pensare di valutare la vitalità di un regime dalla sua capacità di trovare, inquadrare e armare 100-300 fanatici provenienti probabilmente da diversi punti della Toscana e forse del paese. Non vi fu nessuna “gioventù eroica” fascista ma solo gli ultimi lampi del fanatismo di un regime reazionario. E, in fondo, che cosa proverebbero i franchi tiratori, se non il fatto che non vi era un’unica popolazione italiana intenta a liberarsi, ma una lotta in campo aperto tra reazione e rivoluzione, tra squadrismo e movimento di massa?
Nonostante la storiografia non abbia approfondito in alcun modo le modalità con cui furono organizzati e preparati i franchi tiratori, ha dato grosso risalto al fatto che venissero fucilati sul posto dopo la cattura. Tolto dal proprio contesto, questo fatto viene usato per riabilitare il “sangue dei vinti” e biasimare la sorda violenza vendicativa “dei vincitori”. Ci si scorda di dire che essere uccisi dopo la cattura era un fatto di vita quotidiana sotto il fascismo, per qualsiasi giovane renitente alla leva, per i prigionieri politici, per le vittime di una rappresaglia, per una staffetta partigiana, per un operaio in sciopero. Andrebbe aggiunto, anzi, che non si veniva uccisi sul posto ma dopo indicibili torture. Ironia della sorte, il termine “franchi tiratori” era stato usato in precedenza dai fascisti per definire i partigiani. Questo è quanto intimava il capo fascista della Provincia Manganiello nell’ottobre 1943:
“Rendo noto a tutti i soldati facenti parte di bande armate…che il termine di presentazione è stato prorogato al 20 c.m. (…) A decorrere da questa data, ufficiali e soldati verranno considerati franchi tiratori e, come tali, passati per le armi…”[10]
Ci siamo sforzati di mostrare in questo articolo la natura insurrezionale della liberazione di Firenze, di mostrare come l’azione degli Alleati e di una componente interna alla Resistenza fosse molto più preoccupata di frenare lo slancio partigiano che di condurre una lotta efficace contro il fascismo. Nel pieno di quegli avvenimenti erano cioè in moto quelle forze che puntavano a fare della lotta antifascista – come prospettato anni prima da Gramsci – una “rivoluzione passiva” o una “rivoluzione-restaurazione”: un moto di cambiamento delle forme del Governo il quale però finisse per preservare la sostanza del sistema economico-sociale.
Il quadro non sarebbe completo però se non si aggiungesse che nessuno dei membri del Ctln metteva realmente in discussione questa impostazione. Essi proclamarono e guidarono l’insurrezione. Ma non la concepirono mai come una alternativa complessiva alla linea ufficiale del Cln nazionale o all’egemonia degli Alleati. I partigiani che avevano rifiutato di disarmare ad agosto, accettano il disarmo a settembre. Non vi è nessun tentativo di renderli una milizia popolare permanente, né di prolungare e stabilizzare l’autogoverno della città. L’insurrezione fu concepita come una forma di pressione in una trattativa tutta interna all’assetto del nuovo potere sotto l’egida Alleata: bisognava insorgere per contare negli assetti futuri. Cosa temevano quindi gli Alleati e i poteri forti del paese dall’azione del Ctln?
Potremmo rispondere che essi non temevano tanto i gruppi dirigenti di quel processo, ma la pressione e il protagonismo che scaturiva dalla base. Tanto era inviso il grande capitale a grossa parte dei ceti popolari, tanto era chiaro il suo coinvolgimento nel regime fascista, che perfino il periodico cattolico San Marco in quei mesi era stato costretto a dichiarare la necessità di lottare per l’abbattimento del capitalismo. Come testimoniano numerose lettere provenienti dai commissari politici delle Brigate Garibaldi, i giovani diventano garibaldini per vestire “la camicia rossa con falce e martello”, mentre al contrario i dirigenti delle Brigate puntavano a “levare la falce e martello mettendo al loro posto la coccarda tricolore[11]”.
Gracco testimonia “graficamente” questo fatto. Quando nel 1945 consegna all’ufficio stampa del Ministero dell’Italia occupata, aderente al Pci, il manoscritto con il racconto delle vicende della Sinigaglia, scopre che la copertina del libro è “tricolore” e la foto di copertina con un nucleo di partigiani che avanza a pugno chiuso è stata ritoccata. Nella foto che va alle stampe, i partigiani avanzano con le braccia abbassate e senza pugni chiusi. A noi il compito di ricordare che a pugni chiusi si liberò questa città una volta, a pugni chiusi la si libererà un’altra volta.
[1] Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista, vol. V, pag. 365
[2] Ibidem
[3] Carlo Francovich, La resistenza a Firenze, Appendice III, p. 297
[4] Ibidem, p. 301
[5] Ugo Cappelletti, Firenze città aperta, p.60
[6] Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, p.264
[7] Angiolo Gracci, La Brigata Sinigaglia, p. 190
[8] Carlo Francovich, La resistenza a Firenze, p. 282
[9] Angiolo Gracci, La Brigata Sinigaglia, p. 192
[10] Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, p. 82
[11] Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista, Vol, V, p.374
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