Il non-paradosso della ricchezza concentrata in un paese “anomalo”
Un recente articolo de Il Sole 24 Ore, che mostrerebbe i “paradossi” della ricchezza del Belpaese, sta scatenando diversi commenti in giro per il web e non solo. Nel pezzo si fa notare come, nonostante un debito statale aggregato (statale, pubblico comprende qualsiasi cosa) molto alto, la ricchezza mobiliare (conti correnti, azioni, titoli di Stato, polizze, fondi comuni) sfriori i 4.000 miliardi di euro. Il quotidiano di Confidustria ci ricorda anche, da qui l’apparente paradosso, che tale ricchezza è concentrata per metà nel 10% più ricco della popolazione, mentre l’altra metà nel restante 90%.
Ora, è sicuramente interessante vedere che anche da certe colonne non si può fare a meno di ribadire l’ovvio, ovvero una realtà che i numeri mostrano in tutto il suo cinismo, ma c’è bisogno di puntualizzare ulteriormente. Non pensiamo ci si debba sorprendere di una tale situazione, non è certo un paradosso: la società è divisa in classi, seppur in maniera diversa rispetto al passato, quindi ogni discorso sulla “redistribuzione” non ha senso se non si mette in questione l’intero, globale, assetto sociale. Come se davvero, per fare un esempio, si credesse che differenziando i rifiuti casa per casa si possa ovviare al problema di quel che avanza dal ciclo produttivo, come dal consumo.
Il problema va invece ricondotto all’intera dimensione della prassi sociale, la quale a monte vede la produzione di un bene, quindi nuovo valore socialmente aggiunto e poi, dopo questo passaggio, la sua distribuzione per il consumo da una parte, e per l’accumulazione di denaro e poi capitale, dall’altra; così, quando un mattone, dopo esser stato prodotto e venduto, arriva a far parte di una casa, l’insieme del valore (che è tempo di lavoro) dei mattoni di quella casa fissa nell’abitazione un valore superiore alla somma dei singoli mattoni. Questo valore, nella società capitalistica, viene espresso rispetto alle esigenze del profitto, quindi tramite un prezzo, che non corrisponde necessariamente al valore sociale, perchè quel che interessa al capitale è la sua sopravvivenza, noi umani veniamo dopo. E così, dopo questa parentesi e tornando alla situazione italiana, dobbiamo aggiungere un elemento all’articolo del Sole: in questo paese, e lo vediamo bene oggi, non solo il tessuto delle imprese è fatto di tante impresine di piccole dimensioni, quindi con pochi adetti, non solo negli ultimi otto anni è stato perduto il 25% di produzione industriale a causa della schiacciante concorrenza globale, ma va considerata l’importanza del patrimonio privato complessivo comprendendo la diffusione della casa di proprietà, i beni immobiliari oltre quelli mobiliari. Risparmio privato e casa di proprietà diffusi uguale patrimonio e anomalia italiani. E stiamo parlando di una cifra che raggiunge gli 8/9000 miliardi di euro, quasi 5 volte il Pil.
Perchè, come avevamo scritto tempo fa e come in parte ricorda il Sole 24 Ore senza aggiungere però il dato, una delle anomalie di questo paese sta anche nell’alta diffusione della prima casa, dove in pratica il 72-74% della popolazione ne possiede una. Al netto di un 15% che se la sta comprando col mutuo (e quindi con la crisi risente della situazione, come chi è in affitto)) bisogna però controbilanciare con un 16% del totale dei proprietari i quali ne hanno almeno due/tre di case e spesso determinano l’usufrutto gratuito da parte dei figli (e qui le statistiche lasciano un gran sommerso, perché una famiglia tende a suddividere al proprio interno le proprietà che detiene per pagare meno tasse). Esempio: famiglia con tre persone, il babbo è proprietario della casa in città, la mamma della seconda casa in città affittata a stranieri. Tutte e tre le persone risultano proprietarie perché la domanda qui è “Vivi te in una casa di tua proprietà?” e tutti (babbo ,mamma e figlio, quindi anche il legalmente non proprietario rispondono sì, spingendo verso l’alto questo parametro, mentre nessuno, cosa falsa perché la famiglia gode di una piccola rendita, risponde affermativo alla seconda domanda, a quella cioè sulla seconda proprietà). Ed è ovvio che qui non si può parlare di vere e proprie rendite, quindi di prendere i piccoli proprietari come obbiettivo politico, perchè i pesci grossi stanno appunto in quel 10% in cui la ricchezza si concentra.
Per le proprietà immobiliari, ad esempio, il Vaticano possiede quasi un quinto del patrimonio italiano, per la ricchezza genericamente intesa gli Agnelli hanno un portafoglio di 8,9 miliardi e via dicendo.
Ma cosa vorreste dire – si chiederà qualcuno- che appoggiate implicitamente le misure antisociali del Governo? No, semplicemente, si tratta di essere realisti rispetto alla situazione che abbiamo di fronte: tolta quella metà di ricchezza concentrata nel 10%, l’altra metà è spalmata sulla stragrande maggioranza della popolazione. Quando una forte scossa mondiale, come quella arrivata dagli Usa con i subprime (una forma della crisi da sovrapproduzione) mostra che in un baleno milioni di persone perdono la casa, in quanto non ne erano proprietari e avevano numerosi debiti a furia di ricorrere al credito, vedere che al confronto e al netto delle sofferenze gli effetti in Italia sono stati modesti, dovrebbe far pensare. Modesti, sì, perchè se non ci sono sommosse sociali come quelle greche, o relativa miseria come in Usa, bisogna ricordarsi che l’onda d’urto è stata arginata anche dal fattore casa e risparmio, quindi la famiglia come ammortizzatore sociale.
Il principale problema che ci troviamo di fronte, infine, risiede nella mancanza di lavoro, quindi di un salario col quale vivere: una conseguenza delle scelte della nostrana classe dominante, perchè risultato di un sistema non competitivo (da qui le parole del premier sui piccoli artigiani eroi) che ancora non si è ristrutturato per competere su scala globale sotto forma di grande impresa e che, di conseguenza, lascia oggi a noi subalterni solo impoverimento e assenza di prospettive. Chi vende la forza lavoro sono i facchini, le guide turistiche, i lavoratori dei centri commerciali, gli operai delle fabbriche come i copywriter, non i piccoli imprenditori o gli autonomi (altra anomalia numerica italiana, in sovrannumero rispetto ad altri paesi fin dagli anni ‘70) i quali al limite, se ci riferiamo alle microimprese individuali (anch’esse molto numerose) si “autosfruttano”. Chi vende la propria forza lavoro dunque, se ha una casa in cui vivere non è certo un “privilegiato”, così come i lavoratori di questo o quel settore che hanno conquistato con la lotta un contratto collettivo o aziendale decente, peraltro spesso come compromesso rispetto agli obiettivi iniziali. Avere o non avere un salario e averne uno decente poi, in particolare per chi è in affitto e a maggior ragione per chi una casa non ce l’ha, è la vera questione in gioco, generalizzabile. Renzi sta approvando il Jobsact per ridurre al minimo possible TUTTI i salari e quindi rendere ancora più legale non solo il furto di tempo attraverso una giornata lavorativa che è ferma alle stesse ore da più di un secolo (in Italia la legge sulle 8 ore è del 1919, quindi da quasi un secolo), ma anche quello di denaro, a noi oggi necessario per vivere. Le nostre mosse dovranno chiaramente andare nella direzione di un superamento di questa società basata sul denaro, quindi sul profitto e sul capitale, di cui il salario è parte, seppur variabile. Ma dobbiamo confrontarci con l’attuale assetto sociale, se vogliamo superarlo: come si diceva una volta, la lotta economica assieme a quella politica.
* Il primo grafico è preso da Banca d’Italia, il secondo è un’elaborazione dati Istat, preso da qui
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