Le solite utopie letali: un “populismo di sinistra”

Duccio Sorbini per CortocircuitO

Alcune settimane fa in un articolo pubblicato su Contropiano (qui) Guido Lutrario auspicava l’affermarsi anche in Italia di una forza populista di sinistra. Premesso come qualsiasi speranza sia lecita e non meriti affatto di essere denigrata a priori, a noi sembra che un simile sviluppo non sia né probabile né desiderabile. Prima di procedere però nel nostro argomentare, permetteteci una precisazione. Nell’articolo in questione c’è un generico e costante riferimento alla “sinistra”. Il termine – come tutti sappiamo – è problematico sotto molti punti di vista. Nel caso specifico però, la difficoltà di inquadramento riguarda specificatamente l’obiettivo ultimo dell’azione politica che ci si prefigge. Detto altrimenti, se la finalità è la costruzione di una nuova forza nel campo riformista della sinistra socialdemocratica probabilmente ha ragione Christian Raimo a dichiarare che “c’è bisogno di un populismo di sinistra”, magari proprio sulla scia di quanto fatto da Syriza in Grecia oppure Podemos in Spagna. In tal caso però il nostro interesse si esaurirebbe qui. Al contrario, se come sembra possibile dedurre dal media sul quale è stato pubblicato l’articolo così come dal riferimento di Lutrario stesso ad un radicale “cambiamento di sistema” l’attenzione è rivolta verso un superamento dell’esistente, allora la strada proposta dall’autore ci sembra sbagliata e pericolosa.

L’articolo ha indubbiamente il merito di cogliere alcune nostre debolezze presenti. Tra queste ci sembrano  particolarmente significative la nostra incapacità di giungere ad una chiara individuazione di un nemico, attraverso l’attivazione di una forte dicotomia noi-loro, e la perdurante sterilità di tutte quelle proposte generali che hanno provato ad andare oltre le singole vertenze per ricomporle in un quadro d’insieme più ampio. Detto questo, immaginare che la “costruzione del popolo” possa essere la soluzione rimane alquanto dubbio.

Il pensiero di Lutrario muove dalla suggestione che ci sia stata negli ultimi decenni una considerevole riduzione – il riferimento è chiaramente occidente centrico – del peso specifico del proletariato industriale. Questo, a sua volta, avrebbe quindi determinato l’indebolimento della componente centrale del blocco storico anticapitalista, portando alla conseguente necessità di spostare l’attenzione dalle classi al “popolo”. Recentemente, i Clash City Workers hanno mostrato nel loro libro d’esordio (qui) come una simile tendenza sia effettivamente presente, anche se a conti fatti il fenomeno appare – rispetto alla sua reale portata – molto ingigantito nella percezione comune. Quello che a noi interessa qui non è però una guerra di cifre. Al contrario, ci teniamo a ribadire come l’attenzione che studiosi e militanti marxisti hanno dedicato ai lavoratori non risieda né nelle loro misere condizioni di vita né tantomeno nel fatto che gli operai siano soggetto preponderante – dal punto di vista numerico – nella società. Il presupposto è un altro e deriva dal fatto che l’attuale sistema sociale di produzione e scambio è innervato e guidato da una sola finalità: la costante necessità del capitale di valorizzarsi. Questo, come Lutrario sa bene, è possibile solo attraverso l’appropriazione da parte dei non-produttori di quanto fatto da chi quotidianamente è costretto a prestare la propria forza-lavoro in cambio di un salario. Proprio questo ruolo di assoluta centralità nel processo di valorizzazione del capitale rende i lavoratori depositari – potenzialmente, si intende – di una forza che nessun altro gruppo nella società può possedere. L’aspetto centrale non è quindi quello quantitativo, ma bensì quello qualitativo. D’altro canto, a nessuno sfugge come grandi concentrazioni operaie in giganteschi stabilimenti di produzione creino delle condizioni indiscutibilmente più favorevoli alla nostra causa, ma sarebbe forse il parziale venir meno di queste per dichiarare la teoria marxiana del valore superata? Inoltre, delocalizzazioni tout court e parziali esternalizzazioni di tutti quei processi che alcuni decenni fa erano tutti interni alla grande fabbrica fordista hanno indiscutibilmente incrementato la centralità della logistica come settore non direttamente produttivo ma cruciale per la valorizzazione del capitale. L’emersione proprio qui di uno dei più avanzati ed interessanti confronti di classe dovrebbe quanto meno far riflettere chi sbandiera il “popolo” come exit strategy di fronte alla nostra inadeguatezza.

In conclusione, ci sembra importante notare come nessun marxista abbia mai creduto che un processo rivoluzionario possa essere il portato della sola classe operaia. In tal senso qualsiasi grande trasformazione deve vedere necessariamente il mettersi in moto di tutti i settori della società. Al tempo stesso però, proprio per quanto detto prima, i lavoratori non possono non svolgere un ruolo decisivo nel processo stesso. Di più, questi ne devono assumere la guida, precipitando nel proprio movimento tutti gli altri settori sociali, che ne diventano così comprimari. Fateci chiarire quanto detto con un esempio. Quando il Coordinamento Lavoratori Livornesi chiama una grande manifestazione cittadina allo scopo di far guadagnare forza alle varie vertenze in atto ed i commercianti labronici decidono di buttare giù le saracinesche dei loro negozi in solidarietà con la manifestazione, il movimento operaio ingloba al proprio interno il malessere sociale e le difficoltà economiche degli “agenti del capitale”, accodandoli nel proprio movimento ed evitando che questi assumano posizioni reazionarie. Per questo quello di cui necessitiamo non è un nuovo populismo di sinistra, ma un chiaro, forte, vibrante, e combattivo movimento di classe.

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