Giuristi democratici, mobilitazioni sociali, ed astensione: le tante utopie referendarie
Questo articolo integra e completa un nostro contributo sul referendum costituzionale uscito alcune settimane fa. In tal senso, deve essere letto a partire da quanto precedentemente detto. O per meglio dire, rappresenta la premessa alle conclusioni alle quali giungevamo. Conclusioni che ribadiamo volentieri qui in apertura. I lavoratori non hanno niente da guadagnare direttamente dalla vittoria del NO. Al tempo stesso, la sconfitta di Renzi nel referendum porterebbe ad un immediato indebolimento di un governo che rappresenta la punta politica più avanzata nell’attacco a diritti e salari dei lavoratori. Questo dicevamo, e ribadiamo, è un primo e sufficiente motivo per abbandonare ogni velleità astensionista. Senza per questo alimentare le altrettanto letali utopie di quanti immaginano il campo referendario come un possibile trampolino di lancio per un nuovo movimento di classe. Questa rimane per noi una palude ostile, dalla quale sarà il caso di uscire al più presto.
Il presente autunno, che molti si erano affannati a prevedere ‘caldo’, non si sta rivelando nei fatti molto più tiepido dei precedenti. Qualcuno rimprovera la mancata effervescenza sociale al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre – che avrebbe distorto l’attenzione, a dir loro, dalle più classiche tematiche di mobilitazione – altri invece continuano a vedere nell’opposizione alla riforma voluta dal governo Renzi un possibile detonatore per più ampie proteste, immaginando che la lancetta della temperatura politica possa salire sensibilmente nelle prossime settimane. Queste posizioni sintetizzano e rappresentano le due principali impostazioni che si sono affermate come dominanti tra le forze di classe presenti all’interno delle varie organizzazioni politiche e sindacali. Al netto di alcune importanti e significative eccezioni, ci sembra di poter dire che entrambe siano alquanto deludenti.
Da un lato, vi sono tutti coloro che, al netto di numerose precisazioni ed infiniti distinguo, sono arrivati a ‘schiacciarsi’ su posizioni del tutto simili a quelle sostenute dai cosiddetti ‘giuristi democratici’. Precisiamo che qui non ci interessa trattare le argomentazioni di chi ritiene la difesa della costituzione un valore in sé. D’altronde, una battaglia difensiva per mantenere in vita una carta che, subito nel suo primo articolo, dichiara la Repubblica Italiana fondata sul lavoro – ovvero, su rapporti di sfruttamento e dominio, dato il sistema di produzione vigente – si pone automaticamente fuori da una prospettiva di classe. Il nostro bersaglio polemico, invece, sono coloro che hanno ipotizzato la sconfitta referendaria del governo Renzi come un possibile trampolino di lancio per la ricostruzione di un fronte di opposizione alle politiche liberiste.
Simili argomentazioni non dovrebbero suonar nuove. Analoghe considerazioni infatti, solo per fare un paio di esempi, erano state avanzate anche prima del referendum che puntava a rintuzzare l’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua, così come alla vigilia delle recenti elezioni amministrative. Le infinite delusioni alle quali questa prospettiva è andata incontro non devono stupire eccessivamente. L’assunto di partenza si fonda, del resto, su una straordinaria confusione tra piano istituzionale e mobilitazione dal basso. Rimane certamente vero che un’ipotetica sconfitta nel referendum porterebbe ad un sensibile indebolimento del governo Renzi. Non per questo però una riemersione, anche in forme blande e spurie – come avverrà presumibilmente in una prima fase – di conflittualità sociale è probabile, tantomeno certa. Per quanto una mobilitazione dal basso possa trovare terreno fertile in un contesto istituzionale caratterizzato da forte instabilità, non sgorga certamente da quest’ultimo. Si innesta quando numerosi fattori strutturali e soggettivi trovano una loro particolare – ed in gran parte anche unica – amalgama. Impegnarsi nella campagna per il No – immaginando che questo possa creare una cornice propizia ad un movimento di classe – rischia quindi di portare a disperdere le poche energie a nostra disposizione senza alcuna reale ricaduta sul fenomeno che si vorrebbe promuovere.
Sul versante opposto troviamo quelli che ‘tifano astensione’ o che considerano assolutamente equivalente una vittoria del Sì o del No. Il loro ragionamento si basa sulla prospettiva che la difesa della costituzione non porterebbe alcun giovamento ai lavoratori e al proletariato in generale. Al contrario, sostengono gli stessi, piuttosto che partecipare nelle varie forme previste dalla democrazia borghese, i lavoratori dovrebbero sollevarsi contro quei rapporti di produzione che li rendono banale capitale umano da mettere a valore. Evidenziare come questa seconda prospettiva sia più feconda ed attraente – almeno nell’ottica di una prospettiva di classe – non è esercizio complicato. Abbandonare i propri desideri, fuggire posizioni ideali e personali per incrociare la realtà oggettiva è, invece, decisamente meno semplice.
Non basta dichiarare la logica parlamentare superata se questa non è vissuta come tale dalle masse. Non è molto utile schernire i lavoratori per le loro posizioni spesso arretrate politicamente per ottenere un loro improvviso e benefico avanzamento. Compito di una sinistra di classe degna di questo nome non è indicare con zelo saccente la presunta mediocrità politica dei lavoratori. Al contrario, la sfida difficile ed impervia è quella di entrare in contatto con la nostra classe, smascherando le posizioni che oggettivamente appaiono arretrate, senza per questo farsi trascinare in un vortice di scadimento politico. Un compito che sulla partita referendaria, che per sua natura polarizza il tutto attorno ad un SI o NO, appare forse più difficile che altrove. E che per questo, dopo la sconfitta del governo Renzi, deve essere abbandonato il più velocemente possibile.
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