Morti sul lavoro, l’emergenza “dimenticata”

Il 28 novembre scorso, tre marittimi della Caronte&Tourist sono morti in seguito ad esalazioni tossiche di acido solfidrico sulla nave “Sansovino”, acquisita di recente da Caronte&Tourist Isole minori.

Pur non essendo chiara la dinamica dell’incidente si è immediatamente posta attenzione alla questione della sicurezza. I tre lavoratori avrebbero dovuto eseguire la manutenzione di una cisterna, pur non essendo addetti alla mansione richiesta. A testimonianza di questa affermazione lo stato in cui sono stati recuperati i corpi: privi di tute e maschere protettive.

Se una cosa è chiara è che i dispositivi di protezione individuale avrebbero consentito la sopravvivenza, come dimostra il salvataggio di due lavoratori dal nostromo della nave, dotato appunto dei suddetti dispositivi.

Il problema della sicurezza sul lavoro è una piaga ancora aperta in Italia e colpisce senza distinzioni Sud e Nord (come si evince dal recente caso della raffineria Eni di Pavia).

Dall’inizio dell’anno sono morti 597 lavoratori sui luoghi di lavoro. In media si tratta di 80 vittime al mese, quindi 20 infortuni mortali alla settimana. Non a caso, dal martedì nero a Messina, si contano già altre 18 vittime.

Le percentuali delle morti nelle diverse categorie vedono prevalere l’agricoltura e a seguire l’edilizia, i servizi, l’industria e l’autotrasporto.

A questi numeri occorre sommare quelli relativi agli infortuni non mortali: stando ai dati pubblicati dall’Inail nei primi nove mesi del 2016, si contano 470.924 denunce, un incremento dell’1,67% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Inoltre sono in crescita del 3,39% le denunce di malattie professionali.

Diventa quindi impossibile non riconoscere le responsabilità di chi sacrifica la vita e la salute umana in nome del profitto. I tagli agli investimenti che colpiscono sia l’occupazione, con un ridimensionamento degli impieghi e di figure tecniche specializzate, sia l’implementazione delle norme di sicurezza, non fanno altro che favorire il verificarsi di questi episodi. Complice, in un sistema che precarizza sempre più il mondo del lavoro, un impianto di leggi perverso che commercializza perfino la morte, rendendo il risarcimento merce di scambio e piano di trattativa con i familiari di chi è stato spesso vittima di soprusi e di ricatti sul posto di lavoro, magari in cambio del silenzio.

Non stupisce come un tale sistema mieta ancor più vittime al Sud, dove i lavoratori sono sottoposti ad un ricatto ancora più subdolo, alimentato da una disoccupazione massiccia, dalla disperazione e da un sistema che sfrutta a pieno la deregolamentazione vigente nel mercato del lavoro.

Spesso gli incidenti sul lavoro sono legati alla speculazione del terrirorio. Ad esempio, è risaputo che l’area delle Stretto di Messina sia ormai monopolio di una sola famiglia, che non si limita certo ad imporre i costi, arricchendosi alle spalle del servizio pubblico, ma che vedrebbe con favore l’ idea del Ponte sullo Stretto “perché tanto i turisti vorrebbero comunque fotografare il ponte da un traghetto”.

Il silenzio dei sindacati su questo tema è omertoso. A parte i proclama generali quando ci scappa il morto, la verità è che non esiste un piano organizzato per far fronte a questa emergenza. Persino sulla recente questione messinese non è stato indetto che un sit-in di pochi giorni dopo l’avvenimento, rinunciando a qualsiasi tipo di mobilitazione prima degli esiti dell’inchiesta appena avviata sui fatti del Sansovino.

Non possiamo non notare come ancora una volta si sia persa l’occasione per una mobilitazione di un settore che ha perso molto, soprattutto negli ultimi anni, in relazione al proprio potere contrattuale. A poco servono le richieste al governo per implementare i controlli e fare chiarezza, unico atto prodotto dai sindacati confederali.

Dobbiamo tornare a fare pressione sui sindacati, e in particolare tra i lavoratori, per mostrare qual è la condizione in cui viene ricattata la nostra classe sociale; perché il tema della sicurezza non venga più trattato come una questione di routine, collegandolo ai continui tagli che vengono operati nel mondo del lavoro e che non producono altro che povertà e morte.

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