Corsa al riarmo. Il capitalismo perde il pelo ma non il vizio

Quale miglior amico di un sistema economico in crisi per sovrapproduzione, dove la finanziarizzazione del capitale ha diffuso rapidamente a macchia d’olio i confini di tale crisi a livello globale, di una branca di mercato che permetta di produrre merce che per sua natura va distrutta durante l’utilizzo? E se tale merce a sua volta distruggesse altra merce in modo da permetterne lo smercio di nuova?

Se poi tale fetta di mercato permettesse addirittura anche, per mezzo di un massiccio investimento statale, di finanziare direttamente e indirettamente grandi gruppi di capitale privato? Ecco che forse guerra e riarmo tornano ad affacciarsi prepotentemente sulla scena mondiale sotto molteplici forme– anche nuove.

Com’è noto dalle recenti dichiarazioni, l’amministrazione Trump ha annunciato di voler aumentare le spese militari degli Stati Uniti di 54 miliardi in un anno (+10%), “per mantenere l’America sicura” e “se necessario, per combattere e vincere”. Gli Usa sono già il Paese con il più alto investimento nella difesa, un terzo di quanto spendono tutte le nazioni messe insieme, sono inoltre il principale esportatore di armi (33%). Se l’America rilancia gli investimenti, la reazione delle altre potenze economiche mondiali non è da meno: anche la Russia corre al riarmo (con osservatori internazionali che paventano fantomatici scenari da guerra fredda) e la Cina, la quale ha annunciato una crescita della spesa per la difesa pari all’1,3% del Pil previsto per il 2017.

Questa corsa agli armamenti in realtà è già iniziata da tempo, come dimostrano le stime più recenti.

Le spese militari mondiali durante il 2015 sono infatti cresciute dell’1% superando i 1.760 miliardi di dollari, pari al 2,3% del Pil mondiale1. Le stime del SIPRI ci dicono che la tendenza alla crescita è confermata anche nel 2016, del resto il conflitto siriano e la delicata situazione in Iraq non possono che spingere in tal senso.

Sfogliando l’ultimo rapporto SIPRI sulle nazioni che investono in spese militari, in testa alla classifica sempre gli Stati Uniti, che da soli investono poco meno di 600 miliardi di dollari e contribuiscono al 36% della spesa complessiva, seguiti da Cina (13%), Arabia Saudita (5,2%), Russia (4%) e dagli altri 165 Paesi che si dividono il restante 19%.

L’Arabia Saudita è cresciuta del 5,7%, con una spesa complessiva di 87 miliardi di dollari, dovuta agli investimenti diretti per la guerra in Yemen, che secondo la Rete italiana per il disarmo coinvolgono anche acquisti di bombe italiane.

La Russia ha incrementato la spesa del 7,5% (66 miliardi di dollari totali).

L’arsenale nucleare

Gli Usa possiedono da soli 7.000 testate nucleari, la Russia 7.290, Francia 300, Cina 260, Regno Unito 215, Pakistan e India rispettivamente un centinaio, Israele 80, Corea del nord 10. Sul territorio italiano, nelle basi Usa di Ghedi e Aviano, sono dislocate 70 testate nucleari americane.

Durante l’assemblea ONU dello scorso 23 ottobre 123 nazioni hanno votato a favore della messa al bando delle armi nucleari – l’Italia invece si è opposta.

Chi esporta le armi?

Nel 2015 l’export militare mondiale ha costituito un business di 28.626 miliardi di dollari (fonte Iriad), in crescita rispetto all’anno precedente (28.070).

Sotto le tabelle con gli ultimi dati disponibili  riferiti al periodo 2012-2016. I principali esportatori d’armi sono, nell’ordine: Usa (33%), Russia (23%), Cina (6,2%), Francia (6%), Germania (5,6%), Gran Bretagna (4%), Spagna (3%), Italia (3%), Ucraina (3%), Olanda (2%). Tutti gli altri Paesi del mondo coprono il restante 10%.

Nelle immagini allegate al presente articolo trovate i dati più recenti del 2016.

E l’Italia?

Nel nostro Paese la spesa militare è di poco inferiore ai 24 miliardi di dollari, siamo al 11° posto a livello mondiale. Siamo però il principale esportatore di armi “comuni” (armi leggere come le pistole) per un volume pari a circa 307 milioni di euro.

Da ricordare però l’episodio di qualche tempo fa con la vendita autorizzata dal governo di bombe aeree all’Arabia Saudita, con voli-cargo partiti dall’aeroporto di Cagliari. Ricorderete sicuramente il polverone sollevato in tale circostanza, con le forze di sinistra che in coro sventolarono il labaro della legge 185/90, legge che vieterebbe di vendere armi a Paesi in guerra o che violano i diritti umani.

In Italia le spese per la difesa rappresentano al momento una quota appena inferiore al 2% del Pil, pari a circa 35 miliardi, in leggero incremento, mentre la Nato chiede ai Paesi alleati di raggiungere la soglia del 2%.

Tirando le somme, come in ogni canzone c’è un ritornello, ad ogni crisi economica della storia è associato un periodo di “economia di guerra”.

Che i conflitti oggi siano diversi, che la retorica delle differenze culturali e religiose sia diversa o meno, che i nemici non siano più 2 blocchi così distinti denotando un elevato livello di tensione inter-imperialistico (basti pensare al conflitto siriano e a come sono schierate Francia, Russia, Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Cina, Germania, ecc): la guerra è la solita fedele redditizia macchina del capitalismo, che parte dai nostri paesi e arriva a colpire proprio là dove il conflitto viene fatto risiedere, salvo poi magari dare qualche colpo di coda che – guardando al quadro globale – è per lo meno ipocrita definire inatteso.

Leggi anche:

UNA DISUGUAGLIANZA CAPITALE: COME E PERCHÉ AUMENTA LA FORBICE TRA LE CLASSI SOCIALI

POVERTÀ’: EMERGENZA MONDIALE PER GLI UMANI, NON PER IL CAPITALE

TRUMP HA VINTO. E PERDERÀ

Facebook

YouTube