Febbraio-marzo 1921: la conquista fascista di Firenze
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(nella foto la squadraccia fascista fiorentina “La Disperata”)
Prima della marcia su Roma dell’ottobre ’22, il fascismo conquistò molte delle nostre città. La marcia su Roma fu poco più di una parata, mal preparata e a tratti grottesca. Riuscì per la connivenza della monarchia e delle forze dell’ordine. Determinò la nascita del primo Governo Mussolini per la viltà delle cosiddette “forze democratiche”, più spaventate dalla classe operaia che dalla teppaglia fascista. Fu la marcia simbolica sulla città capitale, quando la marcia reale si era già data in molte città di provincia. Fu la conquista simbolica del centro amministrativo, dopo che molte periferie operaie erano già cadute.
Firenze e provincia vengono piegate tra il 25 febbraio e il 3 marzo 1921. Sarebbe sbagliato e fatalista considerare tale data come l’ascesa irreversibile del fascismo su questo territorio. Tra il ’21 ed il ’25 vi saranno diverse occasioni, a Firenze come in Italia, per impedire la definitiva chiusura della morsa fascista. Un periodo che si rivelò però troppo breve perché il movimento operaio riuscisse a partorire un gruppo dirigente in grado di apprendere dagli errori commessi durante il biennio rosso.
Per vedere la provincia e la città di Firenze definitivamente liberate fu necessario aspettare il 1944: un tempo al contrario troppo esteso perché le lezioni del ’21 potessero essere preservate. Molti dei partigiani che nell’agosto del ’44 entrarono a Firenze, superando l’Arno a dispetto dell’attesismo delle truppe alleate, nel 1921 non erano nemmeno nati. Se potevano avere chiaro l’intreccio indissolubile tra apparato repressivo statale, grandi poteri economici e canaglia fascista, non potevano che ignorare l’intreccio di responsabilità che ne determinarono l’ascesa. Quella stessa borghesia che nel 1944 si gettava tra le braccia del “patriottismo democratico”, provando a dividere frettolosamente le proprie responsabilità dal regime, nel 1921 aveva scatenato l’isteria contro il rosso e l’operaio eversivo.
Rivoluzione o consiglio comunale?
La grande guerra ’14-’18 non comportò un tributo di sangue solo nelle trincee. Oltre ai 571mila morti durante il conflitto, l’Italia registrò 451mila invalidi e soprattutto 500mila vittime delle successive epidemie. Nel 1918 carne e latte sono rare o vietate. L’agricoltura è in ginocchio e la riconversione bellica lenta.
L’Italia entra nel conflitto con un debito di 15 miliardi di lire e ne esce con uno di 60. Decidere come redistribuire il peso di tale cifra significava in ultima analisi decidere quale classe dovesse pagare il costo della guerra. Dal ’14 al ’19 il gettito derivante dalle imposte dirette e indirette aumenta da 1 miliardo e 800mila lire a 5 miliardi in termini nominali. In termini reali però diminuisce di oltre un miliardo di lire. Il debito quindi è stato finanziato con la stampa di carta moneta, tanto che la massa monetaria è aumentata di cinque volte. La svalutazione della lira si somma alla scarsità di beni. La forbice tra salari e prezzi si divarica ad una velocità inquietante. Se si considera 100 il monte retribuzioni reali del 1914, nel 1918 sono scese a 65.
Scoppiano nell’estate del 1919 moti per il caro-viveri in molte città del centro-nord. Partito dalla Romagna, il moto arriva in provincia di Firenze il 4 luglio. Vengono assaltati i negozi e i fornai. Ma non è pura disperazione. I generi alimentari requisiti vengono portati alla Camera del Lavoro. Ad Empoli si decise di imporre ai bottegai, ai commercianti e a tutti coloro che vendevano le merci un ribasso del 50% pena la confisca delle merci stesse, quindi si nominava seduta stante – sull’esempio russo- un Consiglio degli operai, dandogli pieni poteri e ai socialisti non rimase che mettersi a capo del movimento. (…) Le autorità comunali accettavano tutte le rivendicazioni popolari e deliberavano il 50% della riduzione dei prezzi di ogni genere di consumoi
Nei moti del caro-viveri è implicita quindi una richiesta di pianificazione e controllo operaio sulla distribuzione. L’esempio russo si diffonde per contagio proprio ed è solo assecondato o nel peggiore dei casi subito dagli stessi dirigenti socialisti. Tuttavia la distribuzione non può essere pianificata senza parallelo controllo della produzione. Il bottegaio, stretto tra i debiti verso il grande capitale, la rendita fondiaria e il costo delle materie prime, vive con terrore questo assalto da parte del movimento operaio. Scrive a Vittorio Emanuele il padrone di un negozio di stoffe:
oggi a Firenze e ieri sera è una vera anarchia: tutti i negozi vengono saccheggiati e la roba viene straziata e trasportata alla bella Camera del Lavoro, fomentata da anarchici e socialisti falsi; e così vanno alla miseria poveri esercenti, che erano gravemente tassati. Tutto questo è nato per la libertà di stampa e per la deficienza da parte del Prefetto e del Regio Commissario Caracciolo. Urgono provvedimenti energici e magari lo stato d’assedio perché il popolo, divenuto selvaggio, prima ha voluto le otto ore di lavoro e 12 lire al giorno e quindi il vivere gratis e così il buono soffre e il cattivo agisce senza che la Autorità intervenga ii
Troviamo in queste righe in forma embrionale e concentrata la base psicologica del fascismo: la sensazione da parte della piccola borghesia dell’impotenza della forza repressiva statale, il desiderio di farla finita non solo con le manifestazioni del movimento operaio ma anche con qualsiasi libertà democratica ne permetta una minima espressione. Tuttavia nel 1919 tale atteggiamento è largamente minoritario. Dopo il disastro bellico, il proletariato si candida con la propria prepotente ascesa a costituire un nuovo ordine basato non sul manganello ma sugli interessi dei ceti popolari.
Come scrive Gramsci: “la rivoluzione comunista, la dittatura del proletariato sono state, in Russia, in Baviera, in Ungheria e saranno in Italia il tentativo supremo delle energie sane del paese per arrestare la dissoluzioneiii”.
La simpatia della piccola borghesia va in questa prima fase in grossa parte ai colpi vibrati dal movimento operaio contro il grande capitale. Dopo il moto per il caro-viveri, l’agitazione sociale si estende infatti a nuove zone e nuove categorie sociali. Arriva nelle campagne dove scuote la base stessa della proprietà agraria toscana: la mezzadria. Quest’ultima, presentandosi formalmente come rapporto alla pari tra proprietario terriero e colono, è stata in grado di garantire a lungo la pace sociale nelle campagne toscane. In tutta la Toscana nel 1914 si sono verificate il 3,4% del totale delle lotte contadine nazionali, contro il 30% del Veneto o il 24% della Lombardia. Nel 1919 questa percentuale sale al 5% e nel ’20 al 15%. A fine luglio ’19 le leghe mezzadrili riuniscono un convegno in rappresentanza di quasi 10mila contadini della provincia. Nell’autunno lo sciopero mezzadrile divampa nel Mugello e nell’empolese. A fine anno saranno 36.500 i mezzadri ad aver preso parte alla protesta in tutta la provincia fiorentinaiv . Il quotidiano nazionalista di Empoli, Il Piccolo, commenta
I mezzadri scioperano! Parrebbe assurdo (…). I coloni scioperano? Un socio che è cointeressato al lavoro non potrebbe né dovrebbe astenersi. Scioperano operai ed impiegati (ora anch’essi) quando insorgono divergenze o per insufficienza di compenso dal lavoro al quale non sono cointeressati (…) Non dimenticate, o coloni, che voi siete soci del proprietario. (…) Non siete come braccianti ed operai. (…) Scioperate perché vi dicono che devono essere a carico del proprietario tutti gli anticrittogamici e i concimi (…) E sta bene. I proprietari potrebbero anche accettare: ma chi li obbligherà ad acquistare tutti i concimi? (…) Per uno o due anni vi rinunzieranno: il podere ne soffrirà, ma non risentirete maggiore danno voi stessi? I patti fondamentali della mezzadria non si possono né debbono cambiare. v
La mezzadria è una struttura non riformabile. Può essere superata attraverso la collettivizzazione delle terre o una riforma agraria che dia la proprietà delle terre ai contadini. Agli occhi dei proprietari agrari l’agitazione mezzadrile non mette all’ordine del giorno qualche lieve perdita economica, ma il sovvertimento stesso delle relazioni sociali esistenti.
Questo spiega perché il fascismo nelle campagne toscane assumerà subito un carattere tanto feroce. Le leghe mezzadrili rosse, legate al Partito Socialista, sono invece ben lontane da capire la portata del movimento che esse stesse hanno scatenato. Si accontentano di concludere lo sciopero con la revisione dei patti colonici. Il nuovo patto, firmato con l’Associazione Agraria Toscana, rimane però sulla carta. Come anticipato dal Piccolo, niente può obbligare i singoli proprietari terrieri ad applicarlo.
Ma l’errore commesso dai socialisti non si limita a questo. Infatuati da un vuoto massimalismo rivoluzionario, i dirigenti socialisti sono per lo più avvocati, professori, accademici, incapaci di cogliere e dominare la dialettica del processo sociale. Si ostinano a non avanzare la rivendicazione della terra ai mezzadri, considerandola meccanicamente in alternativa alla richiesta di socializzare le terre: “Noi siamo contro la piccola proprietà. Siamo contrari a voler creare una piccola proprietà dove non esiste e non può esistere”vi.
Come nelle città e nel movimento operaio, così nelle campagne il Psi si rivela completamente inadeguato a comprendere la situazione rivoluzionaria che si va preparando. Un gruppo dirigente di origini accademiche e intellettuali si trova improvvisamente in mano un partito rafforzato dall’afflusso del proletariato. Il partito non è solo inebriato dalla crescita di tesserati, ma anche dal proprio successo elettorale. Alle elezioni del 1919 prende 1,8 milioni di voti e controlla il 24% dei comuni.
Nelle elezioni politiche del 1919 il Psi ottenne in provincia di Firenze un notevole successo, balzando dal 34,2% del 1913 al 51,2% dei voti conquistando 8 dei 14 seggi in palio. In 35 comuni i socialisti ottengono la maggioranza assoluta e in altri 17 quella relativa. Dei quattro circondari il più rosso risulta essere S. Miniato, dove il Psi conquista il 59% dei voti: gli elettori empolesi votavano socialista per quasi il 70% e, quando apprendevano i risultati, davano vita ad una manifestazione popolare che riempiva tutto il centro e che terminava sul tardi dopo l’ironico trasporto funebre di un pupazzo rappresentante la borghesia empolese vii
Il gruppo dirigente del partito è quindi molecolarmente inglobato nella vita amministrativa. Viene circondato da un nuovo settore di consiglieri comunali che, appena iscritti al partito, già si trovano a rappresentarlo come consiglieri o addirittura sindacaci o assessori. Scorrendo sulle cronache locali i nomi dei candidati socialisti si scopre con sorpresa che sono in buona parte artigiani e perfino industriali. Ai loro occhi la rivoluzione è folclore lontano, un ordine del giorno da presentare in consiglio comunale. E così è. A Montelupo, solo per fare un esempio, la nuova giunta socialista si insedia nell’ottobre del 1920 approvando il seguente ordine del giorno:
Il Consiglio Comunale di Montelupo Fiorentino, conquistato ai diritti sacri del proletariato, miranti alla vittoria finale per la realizzazione completa del socialismo, nella prima seduta di insediamento invia il più sincero auguro alla Russia. (…) Unisce il suo grido a quello dei ribelli, per il fuori dalle galere di tutti i condannati politici
Così, mentre Gramsci e l’Ordine Nuovo sono impegnati nello sviluppare i consigli di fabbrica come forme embrionali del nuovo potere socialista, la maggioranza massimalista dei dirigenti socialisti è infatuata dal proprio cretinismo elettorale. Ignorando la stessa teoria dello Stato marxista, scambiano la conquista del Consiglio Comunale per l’estensione del socialismo. Questo è il partito nel suo ventre molle. Non è un caso che quando nel 1919 si sviluppa una corrente di opposizione di sinistra al massimalismo – quella del Soviet di Bordiga – essa farà dell’astensionismo rivoluzionario la propria bandiera. Con questa consegna i bordighisti cercavano in forma infantile ma genuina una via per separare il corpo vivo del partito dal suo stesso opportunismo elettorale.
La rivoluzione in attesa di direttive
Parafrasando un colorito proverbio popolare, l’incapacità quando va al comando fa rumore o fa danno. Fino a quel momento, i dirigenti socialisti avevano fatto molto rumore. Quando nel 1920 la temperatura rivoluzionaria arriva al proprio apice, iniziano a fare danno. Il movimento sindacale si sviluppa in forma impetuosa. Ogni categoria entra in sciopero, ferrovieri, post-telegrafonici, perfino i lavoratori della paglia a domicilio. Nascono nuove Camere del Lavoro, come quella di Empoli. Ma nell’aprile del 1920, il movimento operaio torinese, avanguardia del proletariato italiano, lasciato isolato di fronte alla serrata padronale, viene sconfitto in campo aperto. In Toscana questo avvenimento non è nemmeno accennato nella stampa socialista locale.
Il partito è immobile, tronfio delle proprie posizioni amministrative raggiunte e intento a guadagnarne di nuove. Ogni movimento scoppia sulla base della provocazione avversaria. A marzo a Cerreto Guidi (Fi) un giovane è ferito gravemente da una pattuglia di carabinieri perché cantava Bandiera Rossa. In provincia di Bologna, il 5 aprile 1920 si verifica un eccidio contadino da parte delle forze dell’ordine. Il movimento di protesta si estende impetuoso alla Toscana: “E’ importante notare che lo sciopero non fu proclamato dal centro ma per iniziativa locale e che ad esso restarono estranei tanto la Confederazione generale del lavoro come la direzione nazionale socialista”viii.
La maggioranza dei comuni della provincia fiorentina entra in sciopero ad oltranza, “formulando l’augurio che lo sciopero stesso non si risolvesse in una delle solite sterili proteste, ma fosse l’inizio di un’azione seria e decisa atta a condurre il proletariato al raggiungimento degli scopi ai quali anelaix”. Ma il movimento rimane in sospeso, nell’attesa vana di direttive dal centro. E in questo stato di attesa inizia a disgregarsi tra disillusione e impazienza, diventando così preda di ogni sorta di provocazione. Ad Empoli scoppia una baruffa tra un carabiniere e dei giovani, la quale si conclude con l’uccisione di un manifestante per un colpo “casualmente” partito dalla pistola del carabiniere.
La reazione impara così per successive approssimazioni l’arte della provocazione. La perfeziona sul campo. Gioca con il movimento come il gatto con il topo. Comprende che l’iniziativa rivoluzionaria è sconclusionata, preda di impazienza e priva di direttive. A livello nazionale tra l’aprile 1919 e il settembre 1920 si verificano 140 conflitti con esito letale tra socialisti e polizia, con più di 320 operai uccisi contro un piccolissimo numero di vittime tra la polizia.
In Toscana il fenomeno è particolarmente rivelante ed è propedeutico a preparare la trappola che scatterà nel 1921. Ma per il momento la provocazione poliziesca e fascista può solo mordere e fuggire. Non ha alcuna speranza di guadagnare un consenso di massa. Quando nell’autunno del 1920 i fascisti effettuano una prima spedizione punitiva contro l’amministrazione socialista di Montespertoli (Fi), vengono accerchiati dalla popolazione locale. Devono essere sottratti al linciaggio dall’intervento della polizia. Perché l’ambiente cambi in maniera generalizzata, è necessario che il disorientamento del movimento si trasformi in vero e proprio sbandamento. E queste condizioni maturano proprio nella seconda parte del 1920.
La sconfitta in campo aperto
Nel settembre del 1920 le principali aziende metalmeccaniche italiane entrano in occupazione. Il partito socialista e la Cgl si rifiutano di trasformare il movimento in un’aperta lotta per il potere. Il movimento rifluisce sulle proprie stesse basi per stanchezza, lasciando spazio allo sbandamento. Lo stesso identico processo si verifica nel movimento mezzadrile fiorentino.
Il Partito popolare italiano (Ppi), espressione delle gerarchie ecclesiastiche e di settori significativi dello stesso padronato agrario, inizia a cercare di erodere il consenso ai socialisti, promuovendo l’opposizione sociale alle giunte rosse. Quest’ultime sono immobili. Non potrebbe essere altrimenti. Una volta insediati nei Consigli Comunali, i socialisti hanno scoperto che l’unico privilegio che gli viene concesso è quello di amministrare una massa enorme di debiti accumulati durante la guerra. Ma, come sempre accade ai riformisti, questa nuova visione del mondo non li spinge a maggiori conclusioni rivoluzionarie, ma al contrario a sentirsi maggiormente “responsabili”. Da amministratori colgono tutte le problematiche del sistema. Il padrone quand’era sindaco non era cattivo. Era in fondo solo oberato da una situazione debitoria importante.
Con nuovo senso di responsabilità, dall’aprile 1920 i dirigenti provinciali del Psi si spendono in ogni modo per giungere ad un nuovo patto colonico con l’Associazione Agraria Toscana. Il patto colonico unico firmato in estate lascia molto a desiderare ma è difeso in maniera congiunta di fronte ai contadini da proprietari terrieri e socialisti.
La fiaccola della protesta mezzadrile viene così raccolta dalle leghe mezzadrili bianche le quali denunciano il patto e si mettono alla testa della nuova ondata di scioperi che si scatena dalla primavera all’autunno dello stesso anno. Ma il Ppi è una contraddizione sociale assemblata in partito. I suoi dirigenti sono gli stessi proprietari agrari contro cui la lotta mezzadrile è rivolta. Le braccia del partito promuovono lo sciopero mentre la testa lo maledice. Alle trattative tra leghe mezzadrili bianche e associazione agraria i dirigenti popolari siedono da entrambi i lati del tavolo. Il Ppi ha cominciato la lotta per rafforzarsi ai danni del Psi. Ne esce in realtà completamente disgregato. I proprietari agrari si convincono dell’impossibilità di usare i popolari per reprimere il movimento. Maledicono i settori sociali cattolici che li hanno spinti a giocare con il fuoco della rivolta. Dal canto loro i dirigenti delle leghe bianche non hanno alcuna intenzione di immolarsi sull’altare della lotta. Quando le forze dell’ordine scatenano la repressione contro i contadini, i dirigenti popolari scappano a gambe levate. Il movimento contadino rimane così sospeso in aria: nato in opposizione alle amministrazioni socialiste, aizzato contro il patto raggiunto tra leghe rosse e Associazione Agraria, viene ora abbandonato alla repressione anche dalle leghe bianche.
Le campagne non hanno perso solo la battaglia. Hanno perso qualsiasi referente organizzato. Mentre le leghe perdono iscritti, l’Associazione Agraria Toscana tocca il proprio apice organizzativo. Nel convegno del dicembre 1920 conta 5324 membri contro i 1264 soci con cui era nata. Un terzo della proprietà agraria toscana è raccolta in una solida organizzazione padronale. In questo clima i fascisti iniziano a fare incursioni punitive senza incontrare resistenza.
Il Mugello, insieme al pratese, è l’epicentro in autunno dello sciopero mezzadrile. A San Piero a Sieve a novembre un gruppo di mezzadri aveva osato protestare presso la tenuta della contessa Cambrai Digny. Un gruppo di giovanotti, risultati poi essere i principali caporioni del fascismo fiorentino, viene invitato il 10 dicembre a colazione presso la stessa tenuta. Adeguatamente riscaldati dai migliori Chianti, escono dalla tenuta e si dirigono in paese dove sparano – da veri eroi – a un vecchio mezzadro di 72 anni. Gli viene consigliato di costituirsi e così fanno. Qualche giorno dopo viene intercettata la telefonata tra l’avvocato liberale Fera e il deputato industriale nazionalista Philipson:
Phil: E’ stato ucciso un vecchio di 72 anni?
Fera: Precisamente, proprio quello…I fascisti sono stati proditoriamente aggrediti dai coloni bianchi!
Phil: Dimmi, dimmi bene! I fascisti dove si erano recati?
Fera: A San Piero….per le agitazioni dei coloni bianchi contro i proprietari.
(…)Phil: Arrestati o no?
Fera: Semplicemente fermati; ma essendo molto evidente che essi hanno agito in stato di legittima difesa…ecco tutto…Non so se sarà spiccato mandato di cattura…In ogni modo ho voluto informarti perché il tuo atteggiamento in questo momento è utilex.
Attorno ala canaglia fascista si stende la rete dell’impunità. Le azioni possono dunque guadagnare di forza e intensità.
Fascismo e Stato democratico
La repressione che si scatena a Firenze nel febbraio 1921 non sarebbe possibile senza fascisti. Ma i fascisti non avrebbero la forza di scatenarla da soli. Sono divisi, non riconoscono l’uno la legittimità dell’altro. Il fascio fiorentino passa da diverse scissioni. Le sue fila sono formate da avventurieri, truffatori, imboscati che si spacciano per ex arditi della guerra, nullatenenti che si proclamano marchesi. Sono anche numericamente poco consistenti. Essi iniziano la propria ascesa sotto l’ala tutelare delle associazioni padronali locali, dei circoli di ex combattenti, dei salotti bene di Firenze, della prefettura e del quotidiano La Nazione.
Il fascismo non è lo Stato borghese. E’ un movimento controrivoluzionario di massa che si basa sulla mobilitazione della piccola borghesia e del sottoproletariato, esasperati dalla crisi. La piccola borghesia non può tollerare di essere stretta a lungo nella morsa tra lotta operaia e dominio del grande capitale. Per sopravvivere alla crisi, ha bisogno che una di queste due forze vinca in maniera definitiva. O con il proletariato per liberarsi dall’oppressione dello Stato e dei debiti verso le banche, o con la grande borghesia contro qualsiasi forma di sciopero o rivendicazione sindacale: questo è il bivio. Nel 1920 la rivoluzione è fallita, dimostrandosi incapace di sciogliere questo nodo. Ora la piccola borghesia passa rabbiosamente alla controrivoluzione.
E proprio perché il fascismo nasce dall’esasperazione sociale, deve darsi una fraseologia ribelle e pseudo-rivoluzionaria. Con tale fraseologia incendia l’immaginazione del bottegaio ed avvolge i settori più arretrati del movimento operaio e contadino. Il disoccupato entrando nelle bande fasciste sente di poter dominare la società. Da reietto è improvvisamente invitato a mangiare al tavolo del padrone. Da ricercato della polizia, ha improvvisamente accesso alle sue grazie.
Tuttavia né piccola borghesia né sottoproletariato possono giocare un ruolo dominante. Il loro ruolo non è in ultima analisi preponderante in una società basata sui grandi mezzi di produzione. Il bottegaio dipende dalla banca, vende nel proprio negozio i prodotti della grande produzione e non ha potere di determinare le scelte di un intero Stato come fanno i grandi gruppi industriali. Il sottoproletario può costituirsi in banda fascista ma ha bisogno di una forza esterna che lo finanzi. La sua azione può mantenersi indipendente solo per un periodo breve.
Per questo, se il fascismo non è lo Stato, esso è comunque destinato ad inglobarsi con lo Stato. Nasce perché lo Stato si dimostra incapace di farla finita con la rivoluzione e ne fa da supplente. Se il fascismo non vive del solo aiuto statale, è comunque fiancheggiato attivamente dalle forze dell’ordine. Se non è un fenomeno nato dai grandi gruppi economici, è sempre e soltanto un servo di tali gruppi. Come scrive Gramsci:
Il fascismo è l’illegalità della violenza capitalistica; la restaurazione dello Stato è la legalizzazione di questa violenza; è nota legge storica che il costume precede il giudice. (…) Il fascismo ha assaltato Camere del lavoro e municipi socialisti: lo Stato restaurato scioglierà “legalmente” le Camere del lavoro e i municipi che vorranno rimanere socialisti. Il fascismo assassina i militanti della classe operaia: lo Stato restaurato li manderà “legalmente” in galera e, restaurata anche la pena di morte, li farà “legalmente” uccidere da un nuovo funzionario governativo: il carnefice.xi
Si tratta di righe scritte nel 1920. Tra illegalità fascista e legalità borghese non esiste contrapposizione. Esiste un rapporto mutuo, dialettico, di trasformazione dell’una nella seconda. Tra il 27 febbraio e il primo marzo 1921 a Firenze ed Empoli le strade della violenza fascista e statale iniziano il proprio intreccio ufficiale. Nell’aprile 1921 scrive il prefetto di Firenze a Giolitti: “E’ da avvertire che truppa, carabinieri, regie guardie e municipio e la stessa magistratura simpatizzano pientamente coi fascisti”.
Il costume precede il diritto, diceva Gramsci. Il diritto dei fascisti alla repressione è preceduto dalla conquista del costume cittadino. La Nazione bombarda l’immaginario collettivo con la cronaca nera. Il giornale si dedica a omicidi familiari, stragi inventate e suicidi fantasma. Anche attraverso le cronache nere, il mondo appare irrazionale, insensato agli occhi del borghigiano. Le efferatezze della cronaca nera si fondono sempre di più con le violenze della lotta di classe, tanto che il mondo appare afflitto da un’unica grande follia, un’unica grande sciagura. Nelle steppe russe si mangiano i bambini, nelle nostre piazze si assaltano i poveri carabinieri, nelle nostre case la follia è in agguato: per fortuna nasce un gruppo di volenterosi, destinati a mettere fine a tanta pazzia.
Nell’agosto del 1920 in piena Firenze esplode un vecchio deposito di armi della prima guerra mondiale, causando 8 morti e centinaia di feriti. La Nazione descrive in maniera dettagliata e pietosa l’improvviso arrivo sul luogo – per primi! – di giovani volenterosi fascisti a rimuovere le macerie. In questa esperienza giornalismo nazionalista e fascismo comprendono l’importanza dei morti per creare un clima di unità nazionale. A fine agosto la polizia apre il fuoco su un comizio socialista. Vengono ammazzati tre operai, ma rimane ucciso negli scontri anche un commissario di polizia. I funerali delle vittime sono molto diversi. Il funerale del commissario si svolge con lutto cittadino, con la piena partecipazione della stampa locale e dell’amministrazione, decine di telegrammi ufficiali da tutta Italia. Quello degli operai vede partecipare 50mila persone, in composto silenzio in mezzo a una distesa di bandiere rosse.
Il meccanismo di parificazione dei morti è comunque scattato. Oppressi e oppressori vanno posti sullo stesso piano fino a che si finirà per convincersi che i martiri sono creati dall’insensata anarchia creata dagli operai. La controrivoluzione sente di aver bisogno di martiri.
Scatta la trappola
Nel novembre 1920 i socialisti non riescono a conquistare il comune di Firenze alle amministrative. Il Nuovo Giornale titola l’8 novembre: “Il pericolo bolscevico scongiurato, il blocco democratico ha vinto a Firenze”. L’amministrazione comunale può quindi fungere da nuovo centro legale attorno a cui dispiegare l’azione fascista. L’escalation può cominciare: 26 gennaio 1921 viene incendiata la redazione del giornale socialista fiorentino La Difesa, il 28 si tenta di bruciare la casa del popolo di Rifredi ed il 22 febbraio i fascisti assaltano il Consiglio Provinciale.
I fascisti sono bene armati. Da agosto 1920 le loro corrispondenze non accennano più a problemi di rifornimento delle armi. Tuttavia non hanno alcuna speranza di battere in campo aperto un’insurrezione popolare. Il loro scopo non è del resto questo. Il loro scopo è creare una insurrezione prematura che giustifichi lo stato d’assedio.
Il 27 febbraio 1921 si tiene un corteo di liberali: non più di 200 persone scortate da 60 carabinieri. Lungo il percorso, viene lanciata una bomba sul corteo. Provoca la morte immediata di un carabiniere e quasi 20 feriti. Uno di questi, uno studente, morirà dopo in ospedale e sarà considerato per anni dai fascisti un proprio martire.
Un altro carabiniere ferito alla testa viene caricato su una camionetta e portato verso l’ospedale. Lungo il percorso gruppi di fascisti iniziano ad aizzare la folla: “Fate largo! Passa una vittima del dovere!”. Un carabiniere spara su un ragazzo nella folla perché “credette di vederlo che agitava il giornale in segno di ribellione”. La caccia all’uomo è ormai cominciata ed è stranamente scientifica. Un dirigente sindacale dei ferrovieri, Giuseppe Mugnai, è freddato di fronte a centinaia di persone in Piazza del Duomo.
Alle 17.30 dello stesso giorno 30 fascisti raggiungono la sede del neo-costituito Partito Comunista d’Italia. Nello stesso edificio si trova anche la direzione del sindacato dei ferrovieri e la redazione dell’Azione Comunista. Entrano e sparano a Spartaco Lavagnini, segretario del sindacato e direttore del menzionato giornale. Due colpi in pieno volto. Sbeffeggiano il cadavere: l’assassino si toglie la sigaretta e la appoggia nella bocca di Lavagnini.
Il 28 la Firenze proletaria insorge. Viene dichiarato sciopero generale e si formano barricate nei quartieri popolari. Il timore è che la rappresaglia fascista continui:
Nei quartieri d’Oltrarno, nelle vicine campagne, un po’ tutt’attorno alla città (…) le voci della sommossa, dei morti e dei feriti (…) avevano seminato il terrore. Senza un piano preordinato (dopo anni di massimalismo parolaio e inconcludente), senza armi, senza danaro, senza dirigenti all’altezza della situazione, a un mese appena dalla scissione di Livorno, ci si disponeva in più luoghi alla resistenza, una resistenza cieca, assurda, disperata.xii
Ma le barricate alzate nei quartieri popolari non dovettero fronteggiare nessun assalto fascista. E’ direttamente l’esercito a marciare sulla città con l’artiglieria. Vengono cannoneggiate Scandicci e San Frediano. La cavalleria carica a ripetizione. La Nazione intanto dedica tutte le sue pagine ai martiri fascisti. Essi non esistono e per questo devono essere inventati. Un certo Berta pretende di passare ad un posto di blocco operaio fatto sul ponte per andare al vecchio Pignone. Rimane coinvolto in una zuffa e precipita dal ponte in Arno. Non è da escludersi che sia precipitato addirittura da solo nel tentativo di scappare. Secondo le cronache ufficiali Berta è un giovane fascista, il quale è stato spinto apposta dai “rossi” in Arno. Le cronache raccontano che il giovane virgulto sarebbe rimasto a lungo attaccato al ponte con i sovversivi a schiacciarli le mani per divertimento. Per anni i fascisti celebreranno Berta come un proprio martire. Nelle elezioni del 1924 producono un manifesto che mostra Berta appeso al ponte mentre gli vengono schiacciate le mani. Nel 1934 la Nazione ricorderà l’episodio nel libro L’Olocausto di Firenze. I documenti dell’autopsia ritrovati anni dopo negano qualsiasi escoriazione alle mani.
Il fascio fiorentino, come già detto, era un nucleo di sbandati. Quando nell’ottobre del 1922 si verificherà la marcia su Roma partiranno in ordine sparso, senza attendere il segnale convenuto. Il gerarca Balbo sarà costretto a correre a Firenze per capire cosa stava succedendo. Appena arrivato in città non va al quartiere generale del Fascio, ma alla redazione de La Nazione spiegando:
Appena giunto a Firenze mi dirigo alla Nazione. (…) E’ un giornale amico e il suo direttore è un camerata. Là saprò notizie sicure della Toscana e potrò vedere i capi fiorentini.xiii
Gli stessi protagonisti delle giornate di Firenze, il gruppo fascista di Dumini, costituiranno poi il comando che nel giugno 1924 preleverà e ucciderà Matteotti.
L’uccisione di Lavagnini fa entrare naturalmente i ferrovieri in sciopero. Per evitare la paralisi della linea ferroviaria, da La Spezia vengono fatti partire 46 marinai per sostituire gli scioperanti. Arrivano a Livorno dove vengono presi in consegna dai Carabinieri. La linea ferroviaria non viene riattivata però stranamente da Livorno verso Firenze. La logica suggerirebbe che Firenze fosse raggiunta direttamente in treno. I marinai vengono invece caricati su camion. Per di più li si fa viaggiare in borghese e non in divisa. I fascisti erano soliti fare le proprie spedizioni punitive su camion. Impossibile quindi che i marinai non venissero scambiati per fascisti. Man mano che si avvicinano a Firenze, cresce l’allarme. Empoli è allertata e decide di resistere. Arrivati in città i camion vengono accolti a colpi di fucile.
Muoiono 9 marinai. L’incidente è preparato ad arte. I giornali nazionalisti accorrono sul posto dove inventano addirittura casi di cannibalismo ai danni delle vittime. Per anni nella zona si tramanderà la leggenda delle donne empolesi che uccidono a morsi i poveri marinai. Ecco cosa scrive il Nuovo Giornale il 4 marzo:
Da un pezzo la cronaca del cannibalismo taceva (…). Bisogna risalire ormai molto in su nella storia del martirologio scientifico o religioso per rintracciare esempi veramente classici di eccidi commessi con raffinatezze di crudeltà: bisogna forse tornare addietro di secoli xiv
La Nazione invoca “il rastrellamento dei delinquenti”. Gli episodi di Empoli sono solo funzionali ad estendere lo stato d’assedio al resto della provincia. Dopo aver domato Firenze, spedizioni fasciste e forze dell’ordine allargano la propria azione in maniera concentrica. Nella notte tra l’1 e il 2 marzo Empoli è occupata dall’esercito. Vengono bruciati circoli operai, chiuse le sezioni socialiste. Dalla zona di Empoli e Montelupo è di fatto deportata tutta la militanza rivoluzionaria. Vengono arrestate più di 500 persone che attenderanno per tre anni in prigione un giudizio sui fatti di Empoli. Le amministrazioni socialiste della zona sono tutte sciolte e commissariate dallo Stato il quale risponde così con un po’ di ritardo a tutti gli ordini del giorno di solidarietà all’Unione Sovietica ricevuti da tali consigli. Il dirigente socialista aveva dichiarato guerra allo Stato a suon di incartamenti, questo ora rispondeva con i fucili.
Nella zona il partito fascista non esiste. Tutte le sezioni vengono create direttamente dopo l’occupazione militare. Da quel momento i commissari prefettizi che sostituiranno i sindaci inizieranno a lavorare attivamente al radicamento del fascismo. Il colpo è durissimo. Nell’estate successiva la resistenza al fascismo proverà a riorganizzarsi attorno al movimento degli Arditi del Popolo che avranno proprio nelle zone citate una forte presenza. Ma gli Arditi si riveleranno appena un sussulto, stretti tra la miopia settaria del neonato Partito Comunista e da quella opportunista dei dirigenti socialisti che firmano proprio in quel periodo un patto di pacificazione con i fascisti.
Nel luglio del 1921 questo sarà il monito di Gramsci rispetto all’inconcludenza di tali dirigenti e alle loro illusioni nella difesa della “legalità democratica”: nei trascorsi 200 giorni di questo barbarico 1921 circa 1500 italiani sono stati uccisi dal piombo, dal pugnale, dalla mazza ferrata del fascista, circa 40mila liberi cittadini della democratica Italia sono stati bastonati, storpiati, feriti; circa 20mila altri liberissimi cittadini della democraticissima Italia sono stati esiliati con bandi regolari, o costretti a fuggire con le minacce dalle loro sedi di lavoro (…); circa 300 amministrazioni comunali elette con il suffragio universale sono state costrette a dimettersi (…). Tutto questo è stato permesso dalle autorità ufficiali, è stato o taciuto o esaltato dai giornali . (…) Le più assurde leggende saranno create contro il popolo barbaro, inumano, formato di cannibali (…). guai a quei partiti politici che non sapranno prendere una decisione, che dall’esperienza storica non sapranno trarre un indirizzo alla propria azione.xv
ivDati tratti da: PAOLA CONSOLANI, La formazione del Partito Comunista in Toscana, 1919-1923, Istituto Gramsci, Firenze, 1981.
xvOrdine Nuovo, 23 luglio 1921
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