Oltre lo sciopero sociale: fermiamo il tempo a livello globale
Di fronte all’apparente stallo sociale italiano, nonostante la portata dell’attacco alle condizioni di vita, qualcosa sembra essersi mosso. Qualcosa, perchè gli scioperi e le manifestazioni degli scorsi due mesi, pur rappresentando un primo timido tentativo di risveglio, ancora mostrano un sostanziale stallo rispetto all’accelerazione che, su un piano non solo europeo ma ormai mondiale, le varie borghesie hanno impresso per tentare di superare questa profonda crisi del capitalismo, ormai giunta alla fine del suo settimo anno. Nota sicuramente positiva è stato lo #scioperosociale del 14 novembre, che ha avuto il merito di mobilitare diverse città sulla spinta di un’organizzazione creata dal basso e che si è data strumenti, slogan e appuntamenti sincronizzati e coordinati. Anche la nascita del Coordinamento Lavoratori Livornesi nella città toscana, che vede aumentare giorno dopo giorno vertenze legate a ristrutturazioni e licenziamenti, è senz’altro un punto importante rispetto a quel che riguarda i lavoratori del Belpaese. Sulla base di questi due esempi vorremmo portare qualche considerazione come contributo ad una discussione che riteniamo estremamente urgente, assolutamente non “astratta” e di conseguenza cruciale per i prossimi anni di lotte.
Gli apparenti consensi alla Lega di Salvini (con tanto di abbandono della “secessione”, tra l’altro mai voluta, per approdare ad un modello simil Le Pen attraverso il coordinamento con gruppi fascisti e nazionalisti), i sindacati confederali che, sempre apparentemente, “cambiano atteggiamento” a parole nei confronti del Governo, che intanto si appresta ad approvare il JobsAct, si spiegano con la particolare situazione che stiamo attraversando: l’economia italiana non cambia verso, c’è bisogno di ristrutturare il capitalismo nazionale e per questo Renzi tira dritto, quindi, se mischiamo ciò con la sostanziale fine dei partiti di massa, otteniamo l’attivismo in salsa corporativa, tanto della Lega quanto della CGIL. Renzi si è infilato in quella che abbiamo definito anomalia italiana, ovvero un capitalismo importante per incroci di interessi locali e internazionali, ma che nello scenario attuale non è più competitivo rispetto alla concorrenza globale. Non è l’”euro” di cui parlano tanti sovranisti, non la famosa austerity (che per ora è stata solo una ricetta per tamponare la caduta dei profitti padronali, verso l’eliminazione di quanto considerato “improduttivo”) si tratta semplicemente dell’inadeguatezza del “sistema paese” e con questo dell’Unione Europea, rispetto alla competizione internazionale. L’UE stenta a diventare, per ora e nonostante alcune accelerazioni, un polo imperialista unitario e l’Italia invece sconta una struttura economica fatta per il 90% di imprese al di sotto dei dieci addetti, quindi poco competitive. Queste imprese, dove l’antagonismo sociale è generalmente basso visto il rapporto “familiare” che vi si può ritrovare (e dove pesca anche, non solo, la Lega Nord in termini di consenso elettorale, nel Nord produttivo in particolare) occupano poco meno del 50% dei lavoratori. Le imprese che invece fanno parte del restante 10%, vedono la presenza dell’altra metà della forza lavoro e infatti sono quelle medie e grandi, come la FIAT (e qui, generalmente, la sindacalizzazione è sempre stata alta). Con questi due dati si può spiegare meglio in quale contraddizione rientra la polemica renziana sull’articolo 18, peraltro solo strumentale, data tale struttura, la mole dei licenziamenti e la vicina approvazione del JobsAct. Questa struttura materiale è la base da tenere in considerazione, se non vogliamo restare abbagliati dai giochi puramente retorici delle varie dirigenze sindacali, partitiche, reazionarie.
Con la crisi delle forme di partecipazione, che un partito come il Pd o altri può superare gettando definitivamente la maschera a suon di cene da mille euro e fregandosene dell’astensione, quello che ci preme è contribuire alla discussione sul famoso “e quindi, cosa facciamo?”, vista la crisi e complicità del sindacato tradizionale e le potenzialità espresse in tutto il mondo dalla sempre maggiore sincronia globale di ogni tipo di contestazione. Il #14n, come detto, nonostante i limiti di questa o quella organizzazione politica, è stato senza dubbio interessante, idem la nascita del primo coordinamento italiano di lavoratori in lotta a Livorno. Ma vivendo da dentro queste mobilitazioni, pensiamo che, di fronte a licenziamenti sempre più numerosi, contratti precari o lavoro gratuito per l’85% dei nuovi “posti” e stabilizzazione generale al ribasso dei salari, sia urgente chiedersi: oggi la difesa del singolo posto di lavoro, premesso che la maggior parte dei lavoratori in Italia ha un contratto a tempo indeterminato, è ancora possibile? Affrontare volta volta, vertenza per vertenza, azienda per azienda, gli attacchi che da sempre arrivano nei confronti di chi lavora, funziona ancora e riesce ad unificare le lotte su scala almeno nazionale? Non stiamo dicendo di “non avere a che fare col sindacato”, solo che il Coordinamento Lavoratori Livornesi crea un precedente interessante: apertura a tutti i lavoratori a prescindere dalla tessera (se ce l’hanno), unità delle vertenze territoriali, mutuo soccorso. Come avviene nel singolo settore logistico con la lotta dei facchini delle cooperative, con la solidarietà di varie realtà politiche. Quello che abbiamo visto e sentito in questi mesi a Livorno pensiamo possa essere un radicale punto di partenza e cambio di paradigma. Difendere il salario, specie per i lavoratori più giovani e precari, che già prima di iniziare a lavorare sanno che dovranno cambiare posto, solidarietà concreta tra lavoratori a prescindere dall’azienda di riferimento e, di conseguenza, unione con i disoccupati e le migliaia in cassa integrazione. Questa “novità” ci sembra un tratto comune a quanto si muove dagli Usa con i Fastfood Workers (che hanno lanciato il primo sciopero globale a maggio), quelli di Walmart, come in Cina, in Germania, Belgio, Francia e così via. Pensiamo che si possa riprendere qualcosa dai tempi di Genova 2001 (aggiornando il software) e quindi pensare e agire globalmente: per farlo c’è bisogno, però, di “installare i programmi giusti” e su questo punto eccoci all’organizzazione territoriale presente a Livorno.
Ora, fermo restando che bisogna far politica ovunque e politicizzare ogni tematica sociale, fino a che non metteremo in campo alternative organizzative efficaci ed efficienti, sarà difficile, sempre che le condizioni lo permettano, ottenere un’adesione di massa e unificare le lotte in modo permanente e meglio coordinato. Livorno, da sola, resta isolata. Senza poi l’inclusione, in Italia in particolare, anche di alcuni di quei 16 milioni di pensionati dai quali molte famiglie dipendono, e in assenza di alternative valide, è ovvio che si lasci il campo alla spoliticizzazione. Salvini e Casapound questo lo hanno già capito, e sono una minoranza, ma si stanno ri-organizzando. Le migliaia di gruppi che mettono in discussione lo stato di cose presente, di fronte ai milioni di persone interessate dai cambiamenti dei prossimi anni, devono cambiare passo, dobbiamo cambiare passo. Cogliere l’attimo, finchè si ha tempo, sfruttare la stessa litigiosità di chi ha molte più forze di noi (per ora) come padroni e simili, ci servirà. Per farlo non resta che sperimentare: l’insofferenza cresce e le risposte facili e non risolutive faranno gola a molti. Il tempo che perdiamo, oltre a quello che ci rubano ogni giorno, lo paghiamo caro. Proviamo a non pagarlo tutto, non si tratta di “elemosinare lavoro dai padroni”: di lavoro ce ne sarà poco chissà per quanto, anche Landini durante una conferenza stampa di fronte al Mise di Roma è costretto a dire ad un lavoratore questa banalità “tu per cosa lavori, per il salario, no?”. Ecco, senza alcun feticcio lavorista, senza alcun feticcio e basta, organizziamoci.
Nel mondo siamo la maggioranza assoluta e vogliamo più tempo per vivere, più salario e un altro modo di gestire i nostri rapporti fra persone.
Se lo vogliamo davvero, ce lo dobbiamo prendere.
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